Amazon Prime, Commedia, Drammatico, Focus, Recensione, Sentimentale

LICORICE PIZZA

TRAMA

Alana Kane e Gary Valentine crescono e si innamorano in California, nella San Fernando Valley del 1973.

RECENSIONI

L’inizio è folgorante, quello che una volta si chiamava Grande Cinema: un raccordo di più long take non esibiti, che in pochi minuti inquadrano la situazione storica, Storica ed emotiva, introducono i protagonisti già sfumati e problematizzati, lasciando irrompere zone d’ombra, misteri, ipotesi mentre trovate visive sottilmente meta-cinematografiche (il gioco di specchi che mima e duplica il campo/controcampo) accendono l’entusiasmo critico. Sembra già un perfetto equilibrio tra il Paul Thomas Anderson a suo modo grandioso e soverchiante che conosciamo e un Paul Thomas Anderson se vogliamo inedito, più leggero (si fa per capirsi), disposto a sporcarsi le mani con la nostalgia per dei seventies tutti teorici e idealizzati, con l’adolescenza, con i sentimenti. Il problema è che, progressivamente, queste apparenti – e apparentemente evidenti – istanze iniziano a sfilacciarsi e Anderson sembra proseguire col suo solito modus operandi, introducendo uno scheletro narrativo intelligibile (almeno a grandi linee) per poi destrutturarlo fino a sfaldarlo, facendo perdere le coordinate e disorientando. Licorice Pizza inizia così a deragliare, la narrazione diventa episodica alla Magnolia-Altman, si procede per quadretti, anche efficaci, belli ma, mi sembra, si finisce per perdere coesione e con essa quell’afflato emotivo che ci aveva catturato nell’incipit. Tutto sa di (de)costruito troppo intenzionalmente, troppo artatamente, e le parentesi in cui il regista ci vuole riacciuffare per le corde emotive, ristabilendo un contatto sentimentale più diretto e meno cerebrale, suonano paradossalmente insincere, ormai fuori contesto e fuori tempo massimo.

La sequenza in cui Alana e Gary si sdraiano sul materasso ad acqua con le mani che si sfiorano sembra un inserto preso da un altro film – o meglio – sembra girata per un film che Licorice Pizza non è (mai stato) e non sarà più ed è anche appesantita da una presenza enunciativa così marcata (l’inquadratura estetizzante col materasso retroilluminato e le bolle a vista) da disinnescare la potenziale tenerezza d’insieme. Il problema dell’ultimo film di Anderson mi pare, alla fine, proprio questo disallineamento tra il suo essere (presentarsi come?) un film leggero, che invoglia ad abbandonarsi al racconto e all’empatia con i personaggi e un altro nel quale il regista americano non rinuncia al suo caratteristico procedere enigmatico, distaccato ed ellittico da solito-film-di-PTA. Solito-film-di-PTA che può funzionare più (Il Filo Nascosto, Il Petroliere) o meno bene (The Master, Vizio Di Forma) ma che comunque non è mai sembrato così preterintenzionalmente disarmonico e incoerente nel suo posizionarsi sul crocevia tra forma e contenuto.
Licorice Pizza, in definitiva, sembra voler abbracciare il suo spettatore per poi respingerlo e alla fine lasciarlo lì, perplesso, a rimuginare su cosa ci sia che non va in un film che sembra(va) tanto bello ma dalla visione del quale si rischia di uscire stanchi, e pure un po’ annoiati.

«Pettine? Specchietto?... Pettine? Specchietto?»: i protagonisti di Licorice Pizza si contemplano, si piacciono. Piacciono anzitutto a loro stessi, prima che agli altri. Si muovono con indistinta sicurezza e apparente consapevolezza in qualunque contesto, e si comportano come se conoscessero alla perfezione le regole d'ingaggio del gioco. Di qualsiasi gioco, si tratti di commercio o politica. Forse perché lo creano e lo conducono loro, il gioco, indipendentemente da ciò che gli accade attorno. Ma, ovviamente, Alana Kane e Gary Valentine piacciono anche l'uno all'altra, fin dal primo sguardo e dall'iniziale confuso approccio di lui, anche se lei non lo ammetterebbe mai. La nuova incursione di Paul Thomas Anderson negli anni '70 – dopo Boogie Nights e Vizio di forma – è uno stralcio di esistenza in divenire: la sensazione, catartica e persino vertiginosa, è che i personaggi si formino direttamente sullo schermo, come ribellandosi ad una scrittura predefinita che magari andrebbe da tutt'altra parte. Anche per questo Licorice Pizza procede a strappi, affastellando e alternando scene madre (e ognuna di esse sembra quella risolutiva, anche se non sapremmo dire bene neanche di che cosa) a momenti di ripiegamento e di illusorio rallentamento. Del resto, “la vita è quella cosa che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti”, e Alana e Gary di programmi e propositi ne hanno in continuazione. All'apparenza forse più Gary, “versione capitalista del Candido di Voltaire” (Federico Pedroni, Cineforum – Nuova serie n.5, marzo 2022) compresso tra una avviata carriera da attore, un improbabile business di letti ad acqua e la voglia di aprire una sala giochi. Alana a volte segue il flusso, altre volte si smarca per fare la cantante, o per entrare nell'entourage di un candidato sindaco (sviluppando cioè, da 25enne, una coscienza sociale ancora del tutto assente nel 15enne Gary).

Se c'è caos, nella loro quotidianità, è quello creativo; e nella successione incontrollata degli eventi che attraversano le loro giornate uno dei punti fermi è l'assenza totale – mai esplicitata ma ampiamente suggerita – di paura. In questa rappresentazione ideale dell'adolescenza e della post-adolescenza la paura non è contemplata, neanche andando in folle e in retromarcia su un camion a secco di benzina. Se è per questo, neanche gli adulti in Licorice Pizza sembrano mai indugiare o dare l'idea di poter essere travolti dall'ansia o dallo smarrimento. Le motivazioni, tuttavia, sono differenti: gli adulti, in Licorice Pizza, sono tutti stupidi, superficiali e/o superflui. Pensiamo al partner megalomane di Barbra Streisand, Jon Peters, che occupa una stazione di servizio per poter fare il pieno alla sua Ferrari; o al narciso Jack Holden di Sean Penn, simbolo del cialtronismo hollywoodiano. Ma anche all'irresistibile Mr. Frick, che imita la parlata giapponese senza conoscere minimamente la lingua (le due sequenze più esilaranti di tutto il film, parentesi goliardiche per nulla prive di senso narrativo), e persino all'aspirante primo cittadino Joel Wachs, la cui credibilità crolla una sera a cena attraverso lo sguardo disilluso di Alana. Potremmo continuare all'infinito, perché qui tutta la presupposta maturità viene regolarmente affossata e canzonata. Alana e Gary, invece, non sono mai ridicoli (al massimo sono comici), neanche quando fanno cose che sarebbero oggettivamente ridicole per chiunque altro. Questo non significa assolutamente che siano vincenti, anzi: la coppia inciampa, cade rovinosamente, litiga, fallisce. Ad affrancarli dalla gabbia dei cliché è però la noncuranza, perché “sono giovani, possono fare ciò che vogliono e vivere unicamente il presente. Non sono spaesati, come i personaggi della maggior parte dei prodotti coming of age o delle no-longer comedies” (Leonardo Cabrini, DinamoPress.it, 19 marzo 2022).

Sono, in buona sintesi, sognatori, sempre fiduciosi e sempre entusiasti. E lo sono ancora di più quando riescono, finalmente, a corrersi incontro, condividendo la stessa unità di luogo e d'azione («Voglio passare il mio tempo con te», dice Gary ad Alana, pochi secondi dopo averla conosciuta). Come le superfici riflettenti – quasi onnipresenti, siano esse semplicemente specchi, vetrate trasparenti o retrovisori –, anche la corsa è uno degli strumenti principali di Licorice Pizza, uno dei grimaldelli per la comprensione del testo. I due personaggi principali corrono da soli, corrono assieme, si inseguono, si cercano ma non si trovano, si raggiungono (lei quando Gary è in stato di fermo alla centrale di polizia, lui quando Alana viene sbalzata dalla moto di Holden), per poi infine abbracciarsi scivolando e crollando davanti ai nostri occhi. L'idea di fuga, di rincorsa e in generale di movimento rappresenta in senso letterale le diverse e complementari fasi della loro vicenda amorosa. Una storia priva di retorica, immersa in uno scenario pervicacemente anti-nostalgico (Licorice Pizza non sembra tanto un film ambientato nel 1973 quanto un film girato nel 1973), chiaramente agli antipodi rispetto al calcolo e alla glaciale freddezza del precedente Il filo nascosto e del rapporto che lo stilista Reynolds Woodcock instaura con la moglie Alma. Inevitabilmente, la relazione sentimentale di Alana e Gary resta non scritta, una tappa di un percorso più ampio che non conosceremo mai. Potrebbe finire subito dopo i titoli di coda o potrebbe anche rimanere addirittura in nuce, desiderio in potenza. Non ha una grossa importanza, perché non è ciò di cui Paul Thomas Anderson vuole parlare. Il fuoco è l'oggi, al centro ci sono solo loro, il futuro non esiste. Sono diversi e alieni (“Is there life on Mars?”); sono goffi, inadeguati, luminosamente immaturi. Quindi, per definizione wildiana, in grado di incarnare – senza rendersene conto – la perfezione.

Un capitolo de L’immagine-tempo di Deleuze fa riferimento ai cristalli. Secondo il filosofo francese, che ragiona su Bergson, il cristallo «non astrae il tempo […] ne capovolge la subordinazione rispetto al movimento» (Gilles Deleuze, Cinema 2 – L’immagine-tempo, Ubulibri, 1989, p. 113).
Il cristallo è capace di mostrare il tempo nelle sue due diramazioni fondamentali, quella del presente che passa e quella del passato che si conserva. Insomma, da bravo cristallo, cristallizza – appunto – l’immanenza e la fonde con una specie di trascendenza, che tuttavia non è preminente, quanto a valore (nemmeno simbolico). Sono due immagini-tempo, interconnesse, ma anche indipendenti, capaci di saturare lo spettro di kronos.
Da kronos, il tempo-tempo, quello cronologico, con il suo scorrimento lineare, a kairos, il tempo favorevole, «il tempo sognato che bisognava sognare», a dirla con le parole di Ivano Fossati. In Licorice Pizza, dal mio punto di vista, c’è molto di questo.
Gary e Alana rappresentano due momenti topici della loro generazione: da una parte il tempo quando non c’è bisogno di misurarlo, perché tutto può ancora essere e ogni elemento si mostra nel proprio divenire perfetto. Gary è poco più che un bambino, ma enormi sono i suoi sogni e le chance che intravede in ogni opportunità (e in una società che, pur incespicante, sembra garantirgliene infinite). Proprio la sua età gli regala una scena che assume una valenza finanche onirica. La prima volta che Gary nota l’esistenza di un materasso ad acqua, in un negozio che vende parrucche, sopra il letto campeggiano due scritte: can't wear out lasts a lifetime (che cosa? Il sogno o il sogno d’amore, in una premonizione quasi carrolliana?) e best sleep you’ll feel yourself.

Dall’altra parte c’è Alana che ha venticinque anni – invece magari sono ventotto – e comincia a sentire il peso di un tempo che domanda conferme, stabilità, competenze che, se per caso non si posseggono, vanno millantate fino al parossismo. Alana ha paura che sia troppo tardi per trovare se stessa. In mezzo a loro c’è un mondo che dà sempre un po’ meno di quel che promette perché non risolve la dicotomia tra tempo spazializzato, sempre a dirla alla Bergson, e tempo interiore. Dunque mentre la corsa, fisica e metaforica, di Gary riesce ancora a essere una corsa a tempo, quella di Alana – suo è il volto più riflesso, nelle superfici e negli sguardi altrui, il tempo dei giudizio, della resa del sé reale a quello ideale – è una corsa contro il tempo; scoordinata, affrettata, ma anche inerte, dunque immobile, la ragazza inizia a immaginare un barlume di senso quando la vita la costringe alla retromarcia. E lei riesce a eseguire il compito ingrato, a dispetto del disastro che sarebbe stato lecito aspettarsi. Non come nella scena in moto con il personaggio interpretato da Sean Penn: quello non era il suo salto, il suo azzardo; quella era solo una messa in scena. Nella sicurezza di muoversi nei suoi anni che, sì, sono ventotto, grossomodo come quelli dell’attrice ai tempi delle riprese, nata anche lei il 15 dicembre, omologa perfetta del suo personaggio, Alana – pure il nome coincide –  si illude ancora per un po’, ma poi capisce.
La quadra per lei è l’amore – che è inoltre un imparare a guardare ed a essere guardati al ritmo convenuto – il punto in cui il tempo esteriore finalmente compenetra quello emotivo. It won’t last a lifetime, come potrebbe? Però è un perno fissato sul presente, né un attimo prima né un attimo dopo. Quello tra Gary e Alana non è l’amour fou ritratto da Truffaut in Jules e Jim, altro film di corridori; niente urne cinerarie, nessuna riflessione sul tempus fugit, niente Eros che copula con Thanatos. Questo è l’amore giovane, con solo un accenno di rabbia. Del resto le età dichiarate, rispetto al film di Malick, sono praticamente invertite: venticinque anni lei, quindici lui. L’età dell’innocenza, in un contesto che non lo è più, che non lo è mai stato, era già lì, davanti ai loro occhi, davanti agli occhi di Alana, vergine di esperienze e tuttavia impietrita dalla paura di sbagliare.

Licorice Pizza è uno di quei film per cui la sala è quanto mai necessaria, perché di quel rito/mito è costituito e si nutre. E io sono lieta di poter sprofondare ancora nelle mie poltroncine dal tessuto un po’ rappreso, con le ombre fossili di gomme da masticare appiccicate sullo schienale dai tempi delle guerre puniche e con vicino la signora che alla fine è venuta al cinema anche per chiacchierare un po’ (e la mascherina se la abbassa appena perché ci sente poco: che intreccio di sensi!). In questo luogo buio dove, per tante ore, mi è sembrato leggerissimo – come l’ultima passeggiata nella semioscurità di Gary e Alana, calma, finalmente – questo macigno di finitezza, che chiamiamo esistenza.
Confesso a margine che la poetica di Paul Thomas Anderson mi è sempre più estranea. Amo molto Vizio di forma, grande adattamento di un romanzo inadattabile e tuttavia solida base drammaturgica a cui rifarsi. Poco altro: Boogie Nights, in parte Il petroliere, credo. Poi basta. Il regista mi sembra perennemente alla ricerca del postulato perfetto, dal punto di vista cinematografico; traluce, nella magnificenza della sintassi filmica, la volontà di dimostrare di essere bravo, il più bravo. Ed è bravo, accipicchia se è bravo. Ma in questo suo personale C’era una volta nella San Fernando Valley, con troppe divagazioni socio-politiche, troppi bersagli da centrare, ho visto la piuma e non l’oiseau (che invece vedo in Tarantino, che pure a prima vista potrebbe sembrare più grossolano). È una questione millimetrica, in fondo: una madeleine che si intinge per un secondo di troppo nel tè di tiglio. Un piccolissimo, del tutto perdonabile, eccesso di contemplazione.
Il fatto che la gran parte dei suoi film mi scivoli addosso senza imprimere un segno significativo, non mi impedisce comunque di riconoscerne l’enorme valore, che è un valore estetico-esterno, si può dire, assoluto (?), ma non personale.
La storia delle arti non ruota intorno al mio ombelico, non ruota intorno a quello di nessuno. Bisognerebbe rammentarlo sempre.

C'è una coppia di campi avversi e complementari in ogni cosa e quindi anche nel cinema: quello del dover essere, della correttezza, e quello del poter essere, della libertà. Il cinema di Paul Thomas Anderson si posiziona da subito nel secondo e continua, magnificamente, a presidiarlo. Sicuramente ci troviamo nel lato luminoso della sua filmografia perché, impermeabili al contesto, i protagonisti mettono in atto una celebrazione della prima età, quella espansiva, che ha vitalismo e partigianeria degna della nouvelle vague versante Truffaut - ed è commovente. Licorice Pizza può apparire un film dal peso specifico diminuito rispetto a opere magniloquenti e gravi come Il petroliere o Magnolia, nelle forme estetiche del kolossal e in quelle narrative del grande romanzo ante guerre mondiali. Invece è un discorso sui suoi soliti temi - l'America come realtà e idea; l'amore e le sue forze contrarie; l'entropia come motore universale che porta individui e momenti storici a crescere, durare precari e crollare; la rivalità mimetica - ogni volta intrecciati con varianti grazie a un filo nascosto. La libertà è un respiro, scriveva Anna Maria Ortese. Proprio come i suoi protagonisti che corrono tra possibilità aperte, il film respira a un ritmo che asseconda ogni divagazione (assicurandosi di renderla emblematica grazie alla maestria di scrittura, messa in scena, interpretazione, inquadratura - e casting, geniale come pochi altri) affinché i discorsi sopra detti risultino vasti, evocativi, proliferativi eppure mai chiusi, letteralmente senza capo né coda. Dare forma al caos senza lasciare che la forma - o, peggio, le conclusioni, le lezioni, il giudizio - soffochi il caos e le stelle danzanti che sono le scene di Licorice Pizza: ogni film di Paul Thomas Anderson è un saggio sulle potenzialità del mezzo-cinema, una riscossa sui segni di obsolescenza che spesso captiamo, almeno in ambito mainstream/spettacolare. Cinema entropico, quello di Anderson, se l'entropia scandisce esattamente il ritmo delle oscillazioni di ogni ente tra ordine e caos.

Alana e le sue sorelle

Credeva che la protagonista del film portasse il suo nome, Alana: non aveva capito di esserne proprio lei l’interprete designata, nella San Fernando Valley in cui è cresciuta, proprio come il “Valley boy” nostalgico Paul Thomas Anderson. Era il 1973, tempo di finirla col Vietnam e di cominciare con la Guerra del Kippur, con la conseguente crisi energetica per cui anche la Ferrari di Bradley Cooper deve mettersi in fila per la sua tanica di benzina. PT aveva tre anni allora, Alana Haim ne ha trenta oggi ed è la più piccola delle sue sorelle con cui canta nelle “Haim”, tale cognome, tale rock band, tale quadro famigliare tutto presente nel film, completo di mamma Donna e papà Moti, diminutivo per l’israeliano Mordechai.
Là fuori, sognatore a stelle e strisce, imprenditoriale, romantico come un materasso ad acqua e altrettanto fluttuante, con un sorrisetto malizioso e il broncio smaliziato, la battuta pronta e la cravatta da adulto, Cooper Hoffman, figlio di quel Philip Seymour scomparso troppo presto, amico e attore, presente in SydneyBoogie NightsMagnoliaUbriaco d’amoreThe Master. Paul Thomas Anderson è a casa, nella sua California, nel suo cinema troppo scritto -se poi vorrà dire qualcosa-, con i suoi amici e attori, i suoi petrolieri e predicatori, nel suo eterno sogno americano infranto che risorge come la fenice e si infrange di nuovo, con la sua nostalgia del futuro che lo porta a ripercorrere le trame passate, il loro filo nascosto, con quel gusto rétro diventato retrogusto artefatto, di pizza e liquirizia, di storie vintage, proprio come quella della catena di dischi ignota chiamata Licorice Pizza, che prese a sua volta il suo nome da un disco di scarso successo che aveva venduto, appunto, quanto venderebbe una pizza alla liquirizia.

Il punto è che nella forza attrattiva e respingente di PT, delle sue superfici, delle sue gag, delle sue emozioni coreografate, delle sue piogge di rane e vizi di forma, la vera nostalgia non è di un’epoca, ma di una terra, di quella terra fra due oceani, lontana e onnipresente, che si basta e non si basta mai, invasiva e evasiva, dove tutto è sempre centrale e sempre collaterale, di quel luogo diversamente esotico che è l’America. “I’m cooler than you”, ci ricorda Alana.
E se la veste Mark Bridges -altro habitué, di PT come degli Oscar, sempre meritati- finisce che ha ragione: le “skort” -gonne pantaloncino- anni 70, i tacchi bassi, gli stivali alti, i vestitini a fiori, le camicie stampate, le polo e t-shirt aderenti, i colletti “alla Peter Pan” in un film sulla precocità di chi in fondo non vuole crescere, sono già di loro una narrazione; le ricerche nei negozi vintage di Los Angeles nell’estate del 2020 in cui il mondo si era fermato, le consultazioni degli annuari scolastici, la ricostruzione specifica di un anno in particolare, l’entusiasmo di una protagonista che non aveva mai recitato, ma che è abituata al palcoscenico e la sua controparte maschile, il trasformismo e la familiarità, sono un qui e altrove che si addice ai tempi, al presentismo sfuggente dell’oggi.
E poi quella scritta poco visibile che cerca -e trova- già il merchandise “You've Come a Long Way, Baby”, che prima di essere un album di Fatboy Slim, fu una pubblicità di sigarette “più sottili di quelle che fumano gli uomini”, nel 1968: quell’emancipazione che fa il giro e diventa ancora più discriminatoria, poi lo rifà ed è di nuovo rivoluzione, o solo ottimo marketing.
Non c’è da stupirsi che l’amore-non amore, le schermaglie e la complicità di due soci in affari che si perdono e ritrovano continuamente, sia per alcuni una grande emozione e per altri, altre due ore di scrittura andersoniana tediosamente impeccabile. Entrambe finiscono dove cominciano, al cinema, dichiaratorio letimotiv che, com’è giusto, ci concede un bacio. Allora possiamo forse dire che, fra crisi economiche, nuovi antichi conflitti, divergenze e convergenze di epoche e di età, “we’come a long way”, ne abbiamo fatta di strada (?)

Ne ha fatta PT? Se siamo qui e lo schermo è ancora acceso, se si guarda, si scrive, si legge, forse sì.