TRAMA
1774, poco prima della rivoluzione francese, da qualche parte tra Potsdam e Berlino. I libertini Madame de Dumeval, il conte di Tésis e il duca di Wand, espulsi dalla corte puritana di Luigi XVI, cercano il sostegno del leggendario duca di Walchen, seduttore e libero pensatore tedesco, ormai solo, in un Paese dove regnano ipocrisia e falsa virtù. La loro missione è di esportare il libertinismo, una filosofia illuminista fondata sul rifiuto dell’autorità e della moralità, e di trovare un posto sicuro dove perseguire i loro giochi, in cui la ricerca del piacere non obbedisce più a leggi che non siano quelle dettate da desideri insoddisfatti.
RECENSIONI
Neanche una manciata di minuti, e chiunque capisce perfettamente, senza possibilità di equivoco, che ci troviamo dalle parti del marchese De Sade. Un gruppo di libertini del 1774 discute della necessità di trovare donne all’altezza del loro compito rivoluzionario, come le eroiche spettatrici di quel famoso squartamento che guardavano il supplizio con disciplinata attenzione senza alcuna traccia di sconvolgimento emotivo. Il dialogo avviene sulla strada verso Berlino, dove questi nobili espulsi dalla corte di Luigi XVI cercheranno l’appoggio del mitico duca di Walchen, al fine non solo di espandere il bacino geografico del libertinaggio, ma anche di trovare il modo di istituzionalizzarlo in senso rivoluzionario.
E come tutto il film che seguirà, in un’unica nottata dal tramonto all’alba, tale dialogo ha luogo, ovviamente, nel bel mezzo di una foresta. Ovviamente, perché in un’ottica sadiana la natura è la fantasia definitiva. La scrittura è l’arma con cui Sade fa esplodere la contraddizione del desiderio, che nel momento in cui viene perseguito fino in fondo si ritrova divorato da dentro dal demone della strumentalità, e dunque si rovescia in senso disinteressato del dovere verso il desiderio stesso. Con l’esplodere di questa contraddizione, la scrittura, l’incarnazione stessa della strumentalità, si palesa principio eminentemente distruttivo, dunque sterile. E per via della propria sterilità, e del proprio chiudersi dentro una dualità maschile che oppone questa in maniera radicale alla fertilità, non riesce a venire a capo del femminile coesistere, nella natura, di creazione e distruzione senza che l’una e l’altro siano legate da un’articolazione stabile – quella in cui la scrittura invece si autoimprigiona per liberarsi della più terribile delle prigioni, quella appunto della natura. Anche Lacan riconosceva come fantasia fondamentale dei romanzi sadiani un essere immortale capace di essere torturato in eterno senza morire – ma questa immortalità altro non è che l’immortalità della natura come Uno, come totalità che si ricrea pacifica dopo ogni smembramento, nella quale creazione e distruzione non sono distinte.
Dal più meccanico dei gangster movie alle elucubrazioni teologico-sessuali bergmaniane, la vocazione più autentica del cinema è sempre stata quella di stigmatizzare la fantasia non semplicemente negandola, ma mettendoci davanti al fatto che ha più vita lei, la fantasia, di noi. Albert Serra sembra finalmente avere capito questo, e dunque sembra finalmente non accontentarsi più di essere un Sokurov dei poveri come negli ultimi due lungometraggi. Per più di due ore nelle quali, narrativamente, non succede nulla, assistiamo a un gruppetto di libertini sadiani abbastanza ridicoli, circondati da una natura che non vuole saperne di mettere al centro le loro perversioni, costantemente decentrate in una sinfonia di silenzi, pause, piedi che avanzano indecisi tra le fronde, tagli di montaggio che spiazzano costantemente ogni coordinazione e coerenza spaziali, occhiate furtive di personaggi che demoltiplicano in “n” direzioni l’unità di qualsiasi evento libidinoso stiano spiando, e altri affascinanti balbettamenti e frammentazioni (da cui la menzione iniziale sullo squartamento). Ogni nuovo spostamento della messa in scena è il rinnovo della sensazione di essere lontani dal centro, ovunque esso sia, e allo stesso tempo l’atmosfera sospesa “tiene”, incolla effettivamente lo spettatore alla sedia per puro senso del ritmo. Nulla è meno naturale della natura stessa, e questo mandò Sade neanche tanto metaforicamente al manicomio: giustamente dunque, con un lavoro filmico altamente formalista che di naturale non ha proprio nulla, Serra materializza uno spazio filmico che è superficie erogena assoluta, in cui ogni punto è erotizzabile e dunque l’erotismo si annulla per dispersione; è la stessa sessualità pregenitale, o antigenitale, che Sade voleva ricostruire con la scrittura, ma qui la scrittura anziché ergersi a spazio erogeno assoluto viene letteralmente ricacciata a propria volta in un angolino: I forbiti eloqui dei nobiluomini si odono appena, dentro a una carrozza che a propria volta è poco più di una macchia artificiale dentro a un verde scuro che è uno spazio naturale filmato in maniera ancora più artificiale.
Serra, insomma, tiene intatta la fantasia sadiana, e ce la ripropone davanti agli occhi così com’è sempre stata, ma compie uno spostamento di prospettiva. Non adotta, né ci fa adottare il punto di vista dello spazio erogeno assoluto della scrittura, bensì il punto di vista di una visualità “naturale” che è la fantasia sognata dalla scrittura sadiana, e che anzi inghiotte quest’ultima facendone un mero sottoinsieme, l’oggetto visto da quel punto di vista ancora più assoluto. La scrittura sadiana è la negazione elevata a principio assoluto, ma che allo stesso tempo sogna un principio ancora più assoluto (la natura) capace di negare la negazione stessa. Per questo, quando finalmente albeggia nell’ultimissima scena, la foresta verrà illuminata non dalla luce del sole, ma da una luce ancora più artificiale di quella che illuminava la notte. Sarebbe troppo facile negare la notte con la luce: in questo modo, invece, è quella stessa negazione ad essere negata.
Se il sogno è quello della natura come fantasia sadiana, il punto di vista è non quello del sognatore, ovvero quello della scrittura sadiana come assolutizzazione del negativo, ma è, perversamente (ma il cinema è innanzitutto questa perversione), quello del sogno stesso che inghiotte il sognatore, ovvero quello di un incanto estetico che non è in contraddizione con il limite estremo della decentralizzazione, della frammentazione, dell’inazione. La fantasia sadiana della natura ci viene dunque mostrata in quanto fantasia (visto il carattere ipercostruito dello spazio filmico), senza però cedere minimamente né sul suo potere di fascinazione né sull’effettività del suo potere dinegazione “al quadrato”.
Il risultato è quello tipicissimo del cinema da più di un secolo a questa parte: ci avviciniamo tanto alla fantasia che, alla fine, la attraversiamo e ce la lasciamo alle spalle. Con un finale così fulgidamente dialettico, la maniacale decentralizzazione dello spazio filmico (che tuttavia dalla foresta non esce mai, perché la natura, secondo la fantasia sadiana, è pur sempre una prigione) non può che ribaltarsi a propria volta nientemeno che in centralismo democratico. Perché alla fine è chiaro come il sole (anche se artificiale) che la rivoluzione non la faranno certo questi quattro scemi che si frustano e si sborrano addosso, e il ribaltamento conclusivo chiama a gran voce, a fini rivoluzionari, un principio di organizzazione dello spazio opposto a quello visto finora: non solo genitale, ma proprio fallico-gerarchico.
Se nel cinema degli ultimi anni c’è un film che, in maniera indiretta ma inequivocabile, fa l’elogio della disciplina leninista di partito, questo film è Liberté.