Drammatico, MUBI, Recensione

LIBERE DISOBBEDIENTI INNAMORATE

Titolo OriginaleBar Bahar
NazioneIsraele, Francia
Anno Produzione2016
Durata96'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi
Musiche

TRAMA

Tre ragazze palestinesi condividono un appartamento a Tel Aviv, al riparo dallo sguardo della società araba patriarcale. Leila è un avvocato penalista che preferisce la singletudine al fidanzato, rivelatosi presto ottuso e conservatore.

RECENSIONI

Il fermo immagine che chiude il film è un ritratto eloquente e sospeso che riassume uno stato di cose in divenire, il rifiuto del conformarsi, l’isolamento che ne deriva, l’interrogativo sul prezzo dell’indipendenza, la determinazione a conservarsi così come si è, nonostante due impedimenti: essere donne; essere arabe a Tel Aviv. Siamo abbastanza distanti da “libertà, disobbedienza e innamoramento”, da aggiungere ai grandi classici della distribuzione italiana che non manca mai di esplicitare-approssimare-“commedizzare”, un po’ come l’editore Brady&co di Quando la moglie è in vacanza che proponeva versioni pocket di vecchi classici della letteratura in veste “erotizzata” per meglio venderli. Si spera che almeno “venda” realmente, perché questo film, produzione israeliana in lingua araba, primo lungometraggio della trentacinquenne Maysaloun Hamoud, nata a Budapest, residente a Israele, al di là del contenuto femminista, dell’aria di emancipazione, della “ribellione” , propone una cosa alla quale raramente si pensa all’interno di un sistema, ossia l’alternativa. Lo fa, inoltre, tramite la costruzione progressiva della complicità fra donne diverse della stessa cultura, che vivono fra tradizione e modernità -un avvocato con una montagna di ricci sulla testa, indumenti sexy o business attire, una studentessa in informatica che porta l’hijab, una deejay con piercing- che scoprono un sentimento di reciproca protezione e supporto in una società che cerca sempre di limitarne l’espressione, ignorane i desideri, falciarne le ambizioni, censurarne i comportamenti, forzarne la natura (“pensi di vivere in Europa?” dice Ziad –Mahmud Shalabi- a Leila –Mouna Hawa-). La chiave è dunque proprio nella diversità e in come al suo interno sia possibile, anzi necessario, trovare la coesione.

Il divario più grande che invece non si colma mai, è quello uomo-donna e, chiaramente, quello fra religioni: “magari domani scoppia la pace” è, nel sottotitolo italiano, un’ironia amaramente speranzosa, che interviene nel dialogo uomo-donna, israeliano-palestinese, accusa-avvocato, impossibile svolta la cui soluzione è “continuare a flirtare”. Qui, dove il dato problematico –tragico- si risolve nell’ammiccamento, entra in funzione la commedia accanto al dramma (in un film che non risparmia baci né stupri in campo), svelando la pulsione sessuale irrisolta che colma e amplifica insieme il divario culturale: Would you have sex with an Arab? è il titolo-quesito del film del 2012 della francese Yolande Zauberman, che si svolgeva proprio a Tel Aviv, città di nightclubbing e contraddizioni. Fra i protagonisti di Bar Bahar, “In Between”, “fra terra e mare” in arabo, “né qui né lì” in ebraico, c’è in effetti la stessa città, accogliente, repulsiva e notturna; non la vediamo mai, ma è lo sfondo immancabile della vita sociale, del coinquilinato, del confronto fra i piccoli centri e la metropoli nei discorsi dei personaggi, sfondo fisico e simbolico, percepito come intreccio di strade e panorama di luci, che contribuisce a dare forse un tocco “Sex and the City” al giro di vite che si svolge al suo interno, ma ricorda anche il videoclip berlinese del remix che il dj tedesco Wankelmut affibbiò a One Day-Reckoning Song che non piacque al suo autore, il cantante israeliano Asaf Avidan, ma che ne determinò il successo, in un’operazione di appropriazione e fusione fra Occidente e Medioriente che proprio nelle “nuove” metropoli, specialmente di notte, trova il suo sviluppo magico e inquietante. Ma fra il dispersivo glamour urbano e il conservatorismo delle province, il sentimento di coesione si salda nell’alveo domestico con un chiaro ammiccamento almodovariano, non solo nell’eterogeneo trionfo di femminilità, eterosessuale o omosessuale che sia, ma anche nella fotografia luminosa, nei colori vividi e compatti: trovare l’unione nella differenza è la chiave della riaffermazione dell’identità e il rifiuto netto e consapevole della limitazione ingiusta è il presupposto dell’indipendenza. Costa, almeno all’inizio (che coincide con la fine del film), il prezzo della solitudine sentimentale. In Between è un film lucido, con un sentimento forte alla base, che parla di vita amorosa, professionale e famigliare mettendo al centro del discorso il corpo della donna, sempre oggetto politico, ma, attenzione, anche soggetto politico (“il comunismo non è morto e io ne sono la prova vivente” afferma una delle protagoniste), ed è proprio quella soggettività che non può essere negata, cosa che richiede un duro compromesso e un atto di coraggio. Premiato all’Haifa International Film Festival di Israele, vale alla regista anche una fatwa, condanna religiosa che non veniva emessa in Palestina dal 1948.