TRAMA
In un piccolo villaggio sul mare di Barents Kolia, che vive con la sua giovane compagna e il figlio avuto da un precedente matrimonio, subisce le angherie del sindaco corrotto che tenta di espropriargli i beni.
RECENSIONI
Di Andrei Zvyagintsev, dopo il premiato debutto (Il ritorno, Leone d'oro a Venezia: troppa grazia), nelle sale italiane si era persa traccia. Lo si ritrova con questo film, sulla scorta dell'accoglienza a Cannes 2014 (premio per la sceneggiatura) e degli altri allori raccolti un po' ovunque (tra gli altri un Golden Globe come miglior film straniero, oltre a una nomination all'Oscar per la medesima categoria). Leviathan è una nuova tappa di un cammino che, dopo quell'esordio, ha conosciuto altre due stazioni mai prese in considerazione dalla nostra distribuzione (Izgnanie e Elena - a oggi il suo miglior titolo -). Leviathan è un condensato - pregi e, soprattutto, difetti - di un cinema visivamente folgorante e brutalmente assertivo, che si dichiara a ogni piè sospinto, senza sfumature o ambiguità: spettatore messo al'angolo, soffocato nelle maglie di un meccanismo drammaturgico che forza gli avvenimenti costringendoli verso direzioni evidenti e che, quando dà spazio al simbolismo (molto spesso), lo fa in maniera univoca, senza spiragli di possibili sensi ulteriori, oltre quelli manifesti, rimarcati puntualmente dalla dittatoriale macchina da presa.
A Pribejny, nel paesaggio desertico e lunare della regione russa lambita dal Mare di Barents, si dipana la storia di Kolia, oppresso dal sindaco che vuole strappargli la casa e il terreno che gli appartengono, apologo sulla sopraffazione del potere e sulla vana lotta per ottenere giustizia. Zvyagintsev non dà scampo agli esegeti, anche l’apparato referenziale essendo puntualmente dichiarato dal testo: le reminiscenze bibliche (la storia di Giobbe) alla base della narrazione sono puntualmente riportate nel discorso tra Kolia e il sacerdote ortodosso, mentre il riferimento chiave alla filosofia di Hobbes lo si ritrova didascalicamente nel titolo prescelto, che fa riferimento al Leviatano, manifesto ideologico del filosofo inglese: lo stato di natura, dunque, è uno stato di guerra di un individuo contro l’altro; così persino colui che aiuta il protagonista, un fraterno amico avvocato, genera un conflitto parallelo, diventando amante della sua seconda moglie, donna in contrasto perenne con il figlio adolescente di Kolia. Gli stessi personaggi sono, del resto, tutti di segno caratteriale evidente (il cocciuto, autodistruttivo protagonista; la moglie: predestinata vittima sacrificale; il volgare sindaco: vittorioso prevaricatore), puri ingranaggi destinati ad incarnare una funzione e a muovere le vicende, senza distrazioni, verso la dimostrazione teoremica sottesa al racconto. Lo schema degli avvenimenti brilla, dunque, nella sua dimostratività e viene condotto secondo una ineluttabile quanto ovvia logica fatale.
Leviathan, deriva smaccatamente formalista rispetto alla levigata quadratura di Elena, in cui le caratteristiche visive e narrative del discorso poetico di Zvyagintsev trovavano per la prima volta sponda le une nelle altre con grande naturalezza e compenetrazione stilistica, è un passo indietro verso una irregimentata infilata di situazioni che si sviluppa farraginosamente, un monolite inscalfibile in cui la sottolineatura come metodo di lavoro perde forza e vira verso lo sterile manierismo, ogni elemento drammaturgico significando in modo palese: ancora una volta il film - che procede svelando gradualmente il quadro complesso delle questioni in gioco - mette in scena una situazione familiare instabile in cui i ruoli sono inadeguatamente ricoperti. Ancora una volta la rappresentazione della quotidianità del nucleo e di quanto lo circonda funge da riflessione mediata sulla desolazione morale della Russia di oggi, dominata da disorientamento, cinismo e ferinità, in cui l’autorità è barbara e crudele, e il compromesso umiliante l’unica possibile via di scampo. E ancora una volta il regista, a cui si continua a riconoscere un rimarchevole talento visivo (di un lirismo a tratti, però, vagamente compiaciuto), sceglie di lasciare fuori campo un momento fondamentale della narrazione: lungi dal fare dell’omissione un punto di forza, ellissi da riconvertire in chiave agnitiva, la piega però a semplice sviamento che non aggiunge o toglie nulla alla composizione del quadro tramico.
