TRAMA
Nell’intersecarsi continuo e ossessivo di fantasie incontrollabili, incentrate sul sesso e sul delirio di onnipotenza, con una realtà quotidiana ben più avvilente e modesta, si svelano gli orizzonti di uno sconfitto, Jean Marc, il cui sguardo amaro su una società sempre più ipocrita non è certo privo di ironia.
RECENSIONI
Al di là del fatto che Arcand non mi piace (non mi piace il suo umorismo di grana grossa, la pesantezza dello stile, il semplicismo dell’esposizione, le cadute, le lungaggini, la mancanza di un equilibrio), mi piacerebbe capire come la pensa, perché a me pare che questo film (stupidissimamente tradotto L’età barbarica, tanto per acchiappare un po’ di pubblico sbandierando la possibilità del sequel - cosa che non è -) sia piacevolmente deviante sul punto. E’ costui un moralista, certo. Un bacchettone che spara il pistolotto sull’alienazione contemporanea, l’incomunicabilità dell’era della massima comunicazione (la moglie, le figlie di Jean-Marc), il delirio di una civiltà contraddittoria, evoluta per modo di dire, senza valori, senza fedi, piena di manie, immersa nelle tenebre (altro che Medio Evo, peraltro evocato, per amor di paradosso, come un’epoca quasi dorata e molto romantica – intuizione abbozzata e abbandonata a se stessa -). Ero pronto a dire che Arcand fosse appunto tutto questo: uno che sale in cattedra e spara unilateralmente sul barbarismo dell’Occidente, il suo declino, sugli estremismi talebani di noialtri, i nostri fanatismi hi-tech, sulla necessità di un recupero di una dimensione umana (la madre morente all’ospedale: un attaccamento vero, doloroso), che porta il protagonista a rifugiarsi nel mondo dei sogni (bello pensarsi il principe Rufus Wainwright e cantarci su da par suo) per sfuggire a una realtà da incubo, il tramite della sua facile disillusione e del suo lamento celentanesco (e dunque ipocrita). Ma all’ultimo secondo un dubbio mi è sorto. Che il regista, in fondo, non fosse così solidale neanche col protagonista e che un lato problematico, dietro tanto apparente pontificare, vi fosse. Quando il protagonista si rifugia nel suo eremo e si dedica alla terra, in questa sorta di arcadica comunità dedita all’agricoltura, mi è parso che il regista prendesse le distanze da questa scelta e vi vedesse il ricorso a una tradizione posticcia, quella del ritorno alla natura come forma ipocrita di fuga. L’inquadratura finale delle mele perfette, rosse e lucide, del tutto innaturali, evidente prodotto di quella società ipertecnologica e scientifica su cui Jean-Marc ha sputato per tutto il film mi è suonata come una conferma. Che Arcand pensi che predicare e chiamarsi fuori dal mucchio siano cose che facciano bene al cuore e alla coscienza ma che le rinunce, con conseguenti prese di posizione, si facciano sempre e comunque alle nostre (agiate) condizioni?