Drammatico, Sala

L’ESTATE D’INVERNO

NazioneItalia
Anno Produzione2007
Durata70'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Christian, diciannovenne proveniente da Alessandria e diretto a Hammerfest in Norvegia, e Lulù, prostituta trentottenne originaria di Prizzi in Sicilia, si trovano in una camera di motel alla periferia di Copenaghen. Consumato l’atto sessuale, lui le chiede di rimanere ancora un po’ a parlare: è disposto a pagarla per la prestazione extra. Vinta l’iniziale ritrosia, lei accetta a una condizione: quando troverà la collana che perso nella camera se ne andrà.

RECENSIONI


Camera del tempo, della memoria e delle tensioni emotive. Più un jeu de découverte che un jeu de massacre: messa a nudo, smascheramento e confessione reciproca si succedono progressivamente in un testa a testa tra due personaggi segnati dall’esperienza dell’abbandono. Christian (Fausto Cabra) è alla ricerca della madre che se n’è andata da quindici anni, Lulù (Pia Lanciotti) vive un’esistenza nomade dopo rapporti naufragati miseramente e un figlio rinnegato: nello psicodramma che si consuma tra le quattro mura della camera da letto, il passato recente e remoto dei due si dispiega ruvidamente tra pressioni inquisitorie, lapsus e rivelazioni semivolontarie. A fronte di un’inclinazione smaccatamente apodittica (in parte riconducibile alla caratterizzazione anagrafica del protagonista maschile), il lungometraggio d’esordio del milanese Davide Sibaldi (classe 1987) ha il merito di non assegnare il ruolo fisso di detentore della verità a uno dei due interlocutori, valorizzando al contrario l’intercambiabilità delle parti nella dialettica attivo/passivo e raggiungendo un’apprezzabile parità drammaturgica.


Sostanzialmente diviso in due parti (con lo smascheramento materiale di Lulù a scandire la cesura), L’estate d’inverno si sviluppa in rigorosa continuità di spazio e tempo, fatte salve brevi escursioni stradali che evidenziano la fredda estraneità del contesto e una manciata di flashforward che preludono al riavvicinamento finale. Girato con tre camere digitali che ronzano ininterrottamente attorno ai corpi degli attori (entrambi provenienti dalla Scuola del Piccolo Teatro di Milano), il film sciorina una rapidità di fraseggio visivo e una variabilità di punti macchina che, corroborati dal montaggio di Rita Rossi e dal sound design di Davide Grecchi, scompongono l’unità spaziale in una serie di microsezioni sceniche (il bagno, la finestra, le poltrone, il letto, lo specchio). La fotografia di Luca Fantini e i costumi di Ana Grguric contribuiscono alla caratterizzazione delle atmosfere (il morbido calore degli interni vs la gelida durezza degli esterni) e alla connotazione cromatica dei personaggi (nera lei, verde lui, con parziale contaminazione reciproca).


Eppure, nonostante i pregi tecnici (tra i quali spicca la prova di Pia Lanciotti), L’estate d’inverno scivola più volte nel didascalismo (“perché” a raffica, motivazioni onnipresenti, simmetrie stridenti) e nell’illustrazione automatica (l’esortazione a sorpassare le ombre), eccedendo inoltre nell’irrorazione musicale dei passaggi più drammatici. Lungi dal sottoscritto ammannire consigli creativi o indicazioni di scrittura cinematografica, ma è forte la sensazione che una minore definizione delle psicologie e una maggiore sottrazione degli elementi patetici avrebbero giovato all’incisività sentimentale dei 70’ del lungometraggio. Il titolo ha una duplice accezione: la prima, esplicitata dal film, riguarda la cittadina norvegese di Hammerfest, ricoperta di ghiacci anche d’estate; la seconda, precisata dal regista nel pressbook, si riferisce alla suite del motel, “un mondo circondato dal caos e dal gelo della tempesta che imperversa, ma comunque un mondo che ha una speranza, che ha ancora del calore, poco, che lo tiene acceso e impedisce al gelo della tempesta di entrare”.