Fantascienza, Recensione

L’ESERCITO DELLE 12 SCIMMIE

Titolo OriginaleTwelve monkeys
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1996
Durata125’

TRAMA

1997: un virus letale stermina la razza umana. Gli scienziati del futuro mandano un detenuto indietro nel tempo per scoprire chi sono le Dodici Scimmie che, a quanto pare, hanno dato inizio alla fine del Mondo.

RECENSIONI

È la magnifica regia visionaria, delirante e grottesca, paradossale e apocalittica di Gilliam a rendere suadente uno script di David-Blade Runner-Webb Peoples, ispirato a La Jetée di Chris Marker (solo nell’incubo del bambino), generoso ma dagli ingredienti banali. Molti i punti di contatto con il meno drammatico Brazil che, però, viveva di uno splendido Caos: qui è tutto più schematico, fattore che ripaga senz’altro con una parte finale dal gioco di eterno ritorno, di possibili infinite reincarnazioni, di inattese contaminazioni temporali, di incastri matematici poggiati (anche) sul mistero, la magia, i presagi. La tonalità di colore dominante è il marrone della ruggine, del fango, della schiavitù, della tecnologia sporca, della mancanza di aria e...di tempo. Anche Brad Pitt, eccellente in un ruolo da “schizzato”, porta (oltre ad un occhio storto) delle lenti a contatto di quel colore. Gilliam si sbizzarrisce con gli amati salti temporali (I Banditi del Tempo, ma anche i flash della memoria de La Leggenda del Re Pescatore), i movimenti fluidi della macchina da presa, le scenografie più immaginifiche, i simbolismi animali (il leone in cima al grattacielo), creando un mix magico di possibile e surreale mentre infila numerose critiche al Sistema sul consumismo, la Televisione, l’automazione, l’avvelenamento della Natura (l’unica a meritare di essere salvata insieme alla musica rock). Alla fine, però, a intrigare veramente è quella sua vena anarchica nell’apologo sulla labilità del confine fra pazzi e sani di mente (con j’accuse al loro filtro: gli psichiatri, che riescono a rendere folle anche chi non lo è): il suo protagonista non è certo l’eroe classico, è iperteso e nevrotico, tanto che, per gran parte del film, aleggia l’inquietante dubbio che tutto sia solo la soggettiva della sua mente malata (e si poteva giocare di più su quest’ambiguità). È tanto potente e incubale l’attimo in cui il folle scopre di essere sano, quanto tragico e spiazzante quello in cui il sano capisce di essere folle: che, per il pessimista Gilliam, potrebbe essere la scappatoia giusta per godersi quel che rimane da vivere, in un Mondo che non vale la pena salvare, anche perché nulla di ciò che accade può essere cambiato. Qualche gag (gli scienziati che spediscono le cavie nei tempi sbagliati e cantano “Blueberry Hill”) e una sottolineata citazione di La Donna che Visse Due Volte (Madeleine Stowe con parrucca bionda e, in sottofondo, la musica di Bernard Herrmann).