TRAMA
Mathieu rincontra la sua prima fiamma, Maya.
RECENSIONI
Regret Fou
“Je suis fou”, ammette Mathieu nel finale. “Sono pazzo”. E' un film sul concetto stesso di “amour fou”. Dopo il destrutturante Luci nella notte, e dopo il cambio di registro segnalato ne L'avion (inedito da noi), Cédric Kahn propone una palese riflessione sull'archetipo del sentimento irrealizzato: la passione tra Mathieu e Maya, entrambi sposati, entrambi racchiusi nelle maglie di un equilibrio apparente, riscoppia violenta dopo tanti anni, senza che ne conosciamo le premesse. Non è un caso, certamente, che Mathieu riscopra la donna dopo aver affrontato la scomparsa della madre: è la morte che innesca l'amore, di rimbalzo, in una concatenazione (una tira l'altro) sempre di archetipi basilari, Eros e Thanatos. Un rapporto che si mostra a slanci, in una struttura circolare piena di fughe e ritorni, travolgente come refrattario alla realizzazione, segnato da vuoti drammatici (dopo la seconda fuga di Maya, Mathieu si rifà una famiglia): sempre contradditorio. E questa “doppia strada” (amore compiuto/amore inevaso) la pellicola la adotta anche a livello strutturale: di fatto al suo interno il film propone entrambe le soluzioni - la vicinanza come la lontananza -, offrendo due possibilità sulla fine di una storia, che infatti rimane aperta perchè non interessa chiuderla. In questa lettura torna la presenza della formula narrativa tipica, vedi l'ossessiva richiesta di Mathieu di ricevere i gesti dell'amore (costringe la donna a baciarlo, abbracciarlo) come prova della consapevolezza che muove la trama: evidente di questa impostazione sono le sequenze in cui l'uomo e la donna si incontrano in stazione e motel. Stereotipi, certo, ma volutamente squadernati e rivisti riflettendo sugli stessi; ma, soprattutto, sabotati dalla cattura dei dettagli. Kahn mantiene la caratteristica peculiare di evocare il sottinteso con l'aiuto della sintesi, basti citare la magistrale scena di letto Mathieu/Maya in cui riluce la fede nuziale dell'uomo; qui il cineasta, idealmente a metà tra i sottintesi di Luci nella notte e le deflagrazioni di Roberto Succo (molti i rimandi figurativi a entrambi, vedi l'auto nella notte), si applica a sbilanciare il film in senso melò e non ha paura di esagerare, affondando ripetutamente la cinepresa nelle scenate fra amanti. Anche così, però, alla fine resta un grappolo di sottintesi da rimeditare e approfondire, presentandosi il film come una coniugazione tra due anime che il regista ha mostrato finora (allusione/esplosione).
Kahn si conferma poi autore trasversale, che conosce le declinazioni di più registri (c'è anche il grottesco e la commedia), me ne applica uno di riferimento, il proprio: un'idea rappresentativa fatta di scene sbozzate, singoli quadri che suggeriscono e continuano oltre lo schermo, domina l'accenno e la capacità di dare taglio personale alle materie più inflazionate (un esempio: si vuole evocare la malattia della madre di Mathieu? Si inquadrano i macchinari ospedalieri e la ricrescita sui capelli della donna). L'apparato simbolico gioca a carte scoperte ma efficaci: Mathieu/architetto, che costruisce per lavoro ma vede crollare il palazzo coniugale (l'ha davvero ultimato?), la deriva interpretativa del nome Maya (una dea - ipotesi ultraterrena - maggio, il mese del “raccolto” - che nel film non arriva mai). Valga lo stesso per la colonna sonora e il reparto attoriale. La prima si affida a Philip Glass curiosamente discreto, che non invade il film ma lo caratterizza. L'altro è centrato sul confronto Attal/Bruni Tedeschi, gestito dal regista con sfacciataggine sottilmente eversiva; e se ci sentiamo di respingere l'accusa di una prova “sopra le righe” (soprattutto per Attal), è perchè la loro prestazione tocca punte insopportabili, porta letteralmente il dramma in strada, quindi spiazza l'occhio e semina disagio: d'altronde inscena il rapporto devastante tra due adulti, dopotutto. Les Regrets, infine, è denso di solari omaggi a un genere radicato nel genoma francese (La signora della porta accanto, naturalmente), da cui peraltro non si lascia sopraffare, seguendo uno sviluppo narrativo coraggioso che chiude col tarlo del dubbio. Il titolo non si riferisce all'amore ma ai rimpianti: ma allora cos'è che dura tutta la vita? Amore folle o folli rimorsi?