TRAMA
Una compagnia teatrale itinerante, libera ed eccentrica, di artisti che vivono in comunità, condividendo tutto, nelle aree dove stazionano con i loro camper: il ritorno di una vecchia amante e l’arrivo di un bambino sconvolgono però l’equilibrio del gruppo e riaprono vecchie ferite.
RECENSIONI
Una piccola compagnia teatrale, il Teatro Dawaï, è protagonista di questo film. Sono artisti girovaghi, che vivono nei loro camper, e si esibiscono in uno chapiteau che allestiscono nelle loro tappe. Evidente la loro natura circense anche se il capocomico ci tiene a precisare che di teatro si tratta e non di un circo. L’anarchia più totale pervade tanto la loro vita quanto la loro arte e l’organizzazione stessa del loro lavoro. Il loro stile è un miscuglio di linguaggi che contamina il teatro di parola con l’acrobatica, la giocoleria, la danza e la musica. Lola, la nuova arrivata, vanta un’esperienza con il teatro fisico estremo di La Fura dels Baus. Portano sapori turchi – nel declamare il tipico dolce rahat al-qum – suonano la fisarmonica e ballano il tango. Lo spettacolo che stanno portando in tour si intitola “Cabaret Čechov” e sembra un montaggio molto libero tra opere del grande autore russo, cominciando da L’orso nella prima parte e proseguendo con una scena di matrimonio, forse ripresa da Le nozze, dove confluiscono personaggi, come Maša e Platonov, e situazioni čechoviani. Come l’albero stesso della scenografia, che la compagnia trasporta su un camion da una città all’altra. Sarà uno di quelli tagliati nel finale di Il giardino dei ciliegi?
La regista francese Léa Fehner, alla sua opera seconda, partendo da una rievocazione autobiografica – cresciuta in una famiglia di teatranti itineranti – realizza un film dove continuo è il gioco tra teatro, finzione, messa in scena e cinema e vita. Nel prologo del film vediamo subito questa buffa rappresentazione di Cabaret Čechov, dove la protagonista è interpretata da una trapezista, dove si cala un grande lampadario grondante di bicchierini di vodka che vengono offerti al pubblico. Massima è anche l’interazione con gli spettatori, coinvolti e provocati dagli attori. E se il Teatro Dawaï sfonda l’illusoria quarta parete teatrale, Léa Fehner mostra questo, come gli altri momenti di spettacolo nel film, sempre dalla prospettiva del dietro le quinte. Lo sguardo e l’espressione degli attori cambiano visibilmente da dentro e fuori il palcoscenico, il pubblico è ammirato da tanto ardore, da qualcosa che non ha mai visto, abituato al teatro borghese di parola, o allo straniamento. Ma arriva l’imprevisto: Déloyal, uno dei membri più squilibrati della compagnia – senza togliere nulla alla precarietà psichica degli altri – fa cadere per sbaglio la corda della trapezista che cade e si infortuna. La rappresentazione si interrompe, finisce il teatro e, con i titoli di testa, inizia il cinema. E la vita irromperà sempre nel teatro, finanche una nuova vita che nasce, nessuna rappresentazione durante il film viene portata a termine,.“Nessun tempo morto” dice il capocomico nel backstage. Il lavoro della compagnia sembra quasi spingere a una violenza contro la dimensione teatrale di Čechov, a instillare brio, gioiosità e ritmo contro quella sua classica lentezza, il suo teatro fatto di “uomini che mangiano, bevono, amano, camminano, indossano le loro belle giacche” come definito in Il gabbiano. Il lavoro che fa la compagnia sull’autore è quello, classico, di inserirsi nelle pause, negli interstizi del testo, per riempirli con azioni teatrali, le più disparate. In fondo lo stesso autore teorizzava la ricerca di nuove forme teatrali, sempre in Il gabbiano e si ostinava a definire i suoi testi come delle commedie. Il canovaccio originale da L’orso, come tutti gli atti unici del drammaturgo russo, rappresenta un conflitto primario, quello tra un proprietario terriero e una vedova da cui esige il saldo dei debiti del defunto marito, come tale usato nelle scuole di recitazione come esercizio protagonista-antagonista. Il rapporto teatro-vita si ribalta più volte e il teatro, čechoviano o meno, torna prepotentemente nella vita privata dei membri della compagnia, fatta pure di uomini che mangiano, bevono, amano, camminano, i cui rapporti sono governati da conflitti nelle microstorie del film, perlopiù amorosi e di gelosia, nonostante la loro promiscuità, nonostante si sentano al di sopra della morale comune in virtù della loro dimensione di artisti. Del resto sono loro stessi, nella loro attività di promozione e volantinaggio dello spettacolo a dire ai passanti: “Se conosci Čechov, ti può aiutare nella vita, ti dà molte idee”. Quando il capocomico porta via la figlia dall’ospedale dopo il parto, bypassando la burocrazia della dimissione, si spaccia per medico: continua a recitare proprio una figura cara a Čechov, lui stesso un medico. E quando Déloyal inscena per gioco uno spettacolino con i pupazzetti dei bambini, dove un re ha un consigliere dal nome Ego, parodiando polemicamente la gestione della compagnia e mandando su tutte le furie il capocomico, si ripropone il modello del metateatro dell’Amleto, la recita per smascherare il re Claudio.
La vita di questi comédien è gioiosa, governata dal caos e sregolata. Corrono nello spiazzo dell’autogrill, fanno risse giocose lanciandosi addosso il cibo come le torte in faccia, vivono in mezzo a bambini che giocano, a cani e oche, guidano l’automobile lavorando contemporaneamente sul portatile tenuto al volante, fanno l’amore tutta la notte, possono dimenticarsi il recinto aperto e subire un’invasione di mucche dovendo poi ripulire lo spazio dal letame lasciato prima dello spettacolo. Hanno una sessualità libera, senza tabù, così almeno dicono, e possono spiegare con tranquillità e naturalezza ai bambini, con disegni esplicativi, cos’è la sodomia. Ma devono fare i conti con il mondo ancora benpensante di fuori. Con i medici che devono per forza individuare un padre alla partoriente Mona. E quando avviene il parto e ancora chiedono chi sia il padre, tutti si alzano. Non solo per la promiscuità della ragazza che rende difficile individuare il genitore, ma anche per la loro stessa esistenza comunitaria e corale: il bambino è figlio di tutti. Mentre il probabile padre, Déloyal, vive un’esistenza tormentata, dopo un’infanzia trascorsa con un padre alcolizzato e madre ritardata, dopo aver perso un figlio di cinque anni per leucemia. La vita con la sua durezza può essere una tragedia, ma nel teatro deve essere sempre una commedia, nella concezione di Čechov. “Gli uomini eccezionali, in filosofia, politica, poesia o arte, sono manifestamente malinconici e alcuni al punto da essere considerati matti” diceva Aristotele.