TRAMA
Kyoto 1137 (epoca Meiji). Il Giappone vive un periodo di crisi, governato, com’è, da due imperatori e diviso dal conflitto fra i nobili e i monaci. Il giovane samurai Kiyomori Taira, saputo di essere figlio naturale dell’ ex Imperatore, decide di non obbedire più agli ordini della corte.
RECENSIONI
Secondo film a colori di Mizoguchi, L’EROE SACRILEGO (aka THE TAIRA CLAN), penultimo film del regista, inquadra un preciso e delicato periodo (l’epoca Meiji) in cui la minaccia di guerre intestine incombe sul Giappone. In un contesto storico già critico e incerto, i samurai – professionisti della guerra, tenuti a debita distanza dalla ricchezza e dalla corte, nella convinzione che solo nella povertà un guerriero possa continuare ad essere valoroso – sono pedine inquiete nel conflitto che serpeggia tra gli avidi dignitari e i monaci che, alimentando nel popolo la superstizione, mantengono su di esso ascendente e potere. In questo stratificato scenario Mizoguchi pone la sua lente muovendosi, da superbo maestro della macchina da presa, da un contesto all’altro, esplorando con occhio mobile gli ambienti, affidando la narrazione a una progressione regolare che alterna lunghi confronti dialettici a sontuose scene di azione o di massa (il mercato, la festa, la splendida fiaccolata dei monaci, il combattimento che culmina nel sacrilegio cui fa riferimento il titolo etc).
L’EROE SACRILEGO è un film di netti contrasti (alla povertà del mestiere delle armi fa riscontro lo sfarzo della corte imperiale) in cui il conflitto di classe (i malumori dei samurai, vere e proprie vittime sacrificali puntualmente escluse dai privilegi e dagli onori civili) costituisce il nodo tematico centrale ben rappresentato dalla condizione del protagonista: figlio di un samurai, samurai anch’esso ma di nobili origini (la madre era la cortigiana dell’ex Imperatore di cui scopre essere figlio biologico), di fronte all’uccisione del padre putativo da parte dei dignitari si scaglia contro di essi e, preferendo raggiungere il potere da umile combattente, senza rivendicazioni di stirpe, opera una scelta di campo che è personale, sociale e politica: in un mondo in cui tutti, in un modo o nell’altro, si vendono per guadagnare qualche gradino nella scala sociale, la sua condotta ribelle (“meglio bandito o pirata che al servizio dell’Imperatore o dei monaci”) ha una purezza che conquista il rispetto e il consenso di altri guerrieri e che conduce alle parole del finale in cui riposa il presagio della futura emancipazione e dell’ascesa dei samurai al potere (“Nobili e cortigiani divertitevi. La fine del vostro regime si avvicina. Il futuro appartiene a noi”.).
Nella regolare scansione drammaturgica si inserisce – come variante, costituendo mirabile brano a parte – il doppio flashback – legato a due differenti racconti e a due diverse versioni dei fatti - che pone la possibile alternativa sulle origini del protagonista: il primo (che si scoprirà veritiero) descrive la visita notturna dell’Imperatore alla madre cortigiana, il secondo il convegno sessuale con un monaco, evidente metafora sulla coesistenza, all’epoca, di una diversa ma assimilabile tirannia. Sarà poi il padre putativo che in punto di morte scioglierà il nodo: sul ventaglio che si rinviene tra le sue mani risiede la prova della nobile schiatta del protagonista (lo stesso ventaglio che accompagna gli elegantissimi titoli iniziali).
Costruito come una tragedia scespiriana, e come questa densa di temi e contenuti, senza fare dell’impianto teatrale una gabbia costrittiva, variando toni e impostazioni, non perdendosi nelle pastoie dell’opera meramente storica o politica ma dando ampio spazio alla dimensione più intima e quotidiana dei personaggi (se l’attenzione narrativa pare concentrata su un universo prettamente virile, non manca la consueta rilevanza data alla condizione femminile, qui rappresentata dalla madre del protagonista – la ex cortigiana che rimasta incinta viene destinata in sposa a un samurai, donna capricciosa ma straordinariamente indipendente che abbandona la casa del marito esasperata dall’indigenza familiare – e dalla figlia del maestro d’armi che Taira chiede in moglie), facendo un uso parsimonioso della musica (che non sottolinea i passaggi più intensi, limitandosi ad accompagnare i raccordi e i mutamenti di scenario) il film ècostruito da Mizoguchi come uno straordinario affresco in cui, alla solida struttura narrativa si associa la consueta cura del coté figurativo: costumi e scenografie sono elementi su cui il regista gioca infatti con impagabile gusto pittorico, complice l’impeccabile direzione della fotografia di Kazuo Miyagawa.