L’EROE MELVILLIANO

Werner, Bob, Silien, Jef, Gu e tutti gli altri personaggi portati sullo schermo da Jean-Pierre Melville configurano un percorso filmico che li accomuna sino a sovrapporli. Non diversi individui, ma lo stesso uomo solitario che con nomi diversi attraversa i vari racconti, distaccandosi sempre più dalla realtà in un processo di astrazione e ascetizzazione che lo rende molto più simile ad un dio. Potremmo dunque rileggere la filmografia melvilliana come il racconto della biografia di un outsider, un uomo eccezionale poiché non classificabile in nessuna di quelle categorie che siamo soliti utilizzare per interpretare ciò che ci sta intorno. L’eccezionalità del personaggio risiede in una profonda ed irreversibile solitudine, sua fonte di energia e nello stesso fonte di sospetto e paura per coloro che sono costretti ad interagire con lui.

Si delinea insomma un percorso, ovviamente frastagliato e pieno di sfumature, che inizia con un film che del genere noir ha ben poco. Le silence de la mer, girato nel 1947 da un giovane Melville, è ambientato durante gli anni dell’occupazione nazista in Francia, ma non è di guerra che si parla, o almeno non di guerra fatta con fucili e cannoni. Due mondi si incontrano per imposizione (quello dell’ufficiale tedesco Werner e quello della piccola famiglia composta da un vecchio e dalla nipote) ed immediatamente fra loro scoppia una guerra silenziosa, fatta di sentimenti come l’orgoglio, il pregiudizio, ma anche la passione. In Werner, l’ufficiale tedesco, iniziano a delinearsi i tratti di quella solitudine che secondo Melville è marca distintiva di un essere eccezionale. Al pari dei suoi successori Werner è un outsider, ma a differenza di Silien, Jef e gli altri è inconsapevole del suo status. Indesiderato dalla famiglia che lo ospita e ormai incapace di condividere l’ideale nazista, si sentirà disilluso e sceglierà la morte come tentativo per riaffermare la propria presenza nel mondo. Ciononostante restano in lui tracce di umanità che si dissolveranno con l’affinarsi dello stile melvilliano e che si manifestano, durante le serali “occupazioni” del salone della loro casa, con un flusso di parole appassionate rivolte al vecchio, nel tentativo di rompere il silenzio.

Umanità e disillusione sono ancora ben evidenti nella personalità di Bob, protagonista di Bob le flambeur, girato nel 1955. Uomo del milieu, un passato glorioso alle spalle e apparentemente stimato da tutti, Bob è profondamente cosciente del proprio fallimento. Emblematica l’espressione di quasi disgusto con cui osserva la sua imagine riflessa su una vetrina, sottolineata da un’esclamazione altrettanto amara: “Belle gueule de voyou!”. Soltanto Paul, un ragazzo aspirante malvivente, lo guarda con gli occhi di chi ha bisogno di un maestro e modello da imitare. Ed è proprio con Paul che Melville introduce un nuovo e fondamentale elemento per la costruzione dell’eroe: l’amicizia. Sentimento nobile e indispensabile all’uomo, essa assumerà una connotazione profondamente ambigua da Silien in poi, ma sembra ancora molto importante per Bob. La sua disperazione per aver causato la morte dell’unica persona amica rivela tracce di umanità ereditate da Werner, residui che stanno per disperdersi e trasformarsi in quel cinismo che lentamente si insinua nel mondo raccontato dal regista, rendendolo sempre più gelido e spietato.
Silien e Maurice, protagonisti di Le Doulos, girato nel 1962, rappresentano in parte questa nuova evoluzione. Complementari l’uno all’altro questi personaggi sono l’espressione della doppia personalità del nostro eroe. Da un lato Maurice è il prolungamento dell’umanità di Bob e Werner, che in lui si manifesta come debolezza e meschinità: è lento, i suoi ragionamenti risultano sempre fallaci, lascia che la sua emotività interferisca in ogni sua azione, portandolo a commettere un errore dietro l’altro. Tali azioni, come i suoi discorsi, sono l’espressione della rassegnazione di un uomo che si sente ormai finito e che, nonostante il disperato e inutile tentativo di riscattarsi da tale destino (il colpo a Neuilly), non potrà che accettare il proprio status di perdente. E in quanto perdente non sarà neanche degno di scegliere la morte come mezzo per riaffermare la propria dignità di eroe: la sua fine arriverà per un banale errore commesso dal killer da lui stesso ingaggiato.

Dall’altro lato il suo complementare, Silien, incarna l’altra faccia dell’eroe, quella che prenderà il sopravvento nei film successivi per arrivare al suo compimento massimo con Jef (e poi modificarsi nuovamente con Edouard, protagonista del melanconico e ultimo film del regista). Personaggio fra i più controversi creati da Melville, Silien è sempre in bilico fra la concezione classica dell’eroe del noir e le aspirazioni ascetiche dell’eroe melvilliano. È uomo cinico, spietato, scaltro nel raggirare esponenti dei due mondi con i quali ha rapporti (malviventi e poliziotti), manipolando la loro percezione della realtà per affermarne una nuova, creata da lui stesso. Il suo vagare per le strade di Parigi, il suo essere ovunque, apparendo e scomparendo senza dover dare spiegazioni, lo rendono un corpo evanescente, una sorta di deus ex machina che agisce in una dimensione, quella degli altri personaggi, ma sembra provenire da un’altra parallela ad essa. Non mangia, beve solo per rispondere ad un cliché, non ha desideri sessuali se non per calcolo. La sua dinamicità, il suo essere in continuo movimento come la sua verticalità, in opposizione alla frequente orizzontalità di personaggi la cui maggior colpa è l’essere mortali (orizzontalità = debolezza e mortalità), sono l’evidenza di quella onnipotenza che può essere soltanto di un semi-dio, cioè dell’eroe/asceta melvilliano. Questo eroe indossa un’uniforme, cappello e impermeabile, che legittima e attribuisce le competenze necessarie affinché possa sentirsi ed essere considerato un superuomo disincarnato e invincibile. Privarsi di tale uniforme vuol dire intraprendere la strada verso la propria fine. Sia Silien sia Jef, protagonista di Le Samouraï, saranno costretti a spogliarsi, ma se il secondo lo farà cosciente di aver scelto la morte, il primo è ignaro del destino che lo attende. La sostituzione dell’impermeabile con un cappotto nero, coincide infatti con due degli eventi che causeranno la sconfitta di Silien: l’incontro con il Commissario Clain e il successivo arresto di Maurice che proprio in prigione commissionerà la sua morte. Morte che sarà la conseguenza diretta della non raggiunta perfezione dell’eroe-Silien: nonostante il cinismo con cui agisce, l’amicizia è per lui ancora un sentimento da difendere e perciò sarà cieco di fronte alla meschinità di un uomo, Maurice, di cui ha piena fiducia.
Amicizia e morte assumeranno da Jef in poi un significato molto diverso. Con il protagonista di Le Samouraï, girato nel 1967, siamo di fronte al compimento massimo dell’eroe melvilliano: Jef è un solitario, un amorale in totale delirio di onnipotenza. Onnipotenza che si manifesta nella purezza di un atto, l’omicidio, come momento conclusivo di un rituale compiuto con una meccanicità e lentezza quasi ossessive: il furto di un’auto, una Ds, la visita ad un garage per ritirare targhe, documenti falsi e una pistola, i guanti bianchi indossati sul luogo del delitto, un dialogo scarno con la vittima, un mancato scontro a fuoco, la morte della sua vittima e infine la fuga. Rito che ripeterà anche quando, ormai quasi in trappola, deciderà di andare incontro alla propria morte, un suicidio/omicidio, per riaffermare il proprio status di eroe/asceta e dimostrarsi ancora una volta padrone del proprio destino. Jef è dunque il vero eroe/asceta e come tale ha le doti e l’istinto di un animale feroce. Le sue azioni sempre fredde e spietate sono precedute da un momento di meditazione e osservazione dell’ambiente circostante. Nessuna parola, solo sguardi di ghiaccio e gesti di una precisione assoluta. La sua casa è una tana, un rifugio grigio e quasi privo di mobili, che sembra il prolungamento della freddezza e della solitudine di un uomo il cui unico credo è vivere senza possedere nulla, perché tutto ciò che serve è nell’interiorità dell’essere. L’essenzialità e il silenzio di questo luogo, interrotto soltanto dal canto del pettirosso, lo rendono tanto sacro da far percepire le irruzioni di polizia e malviventi come delle vere e proprie violazioni dell’interiorità stessa del personaggio. La realtà, così come siamo abituati a conoscerla, perde di senso in un contesto in cui tutto sembra fluttuare per dissolversi all’interno di una dimensione frutto della mente di uno schizofrenico. Significativa in questo senso è la prima sequenza del film in cui il regista, con un complesso movimento di macchina (travelling indietro congiunto a uno zoom in avanti e leggeri arresti della mdp), produce il fluttuare irreale dell’ambiente (la camera di Jef) in contrasto con l’impassibilità del protagonista, steso sul letto con lo sguardo fisso al soffitto; contrasto che ben esemplifica l’essenza dell’eroe melvilliano. La stessa città in cui il protagonista si muove, Parigi, nonostante i primi piani della cartina della metropolitana durante la lunga sequenza dell’inseguimento e nonostante i primi piani dei nomi delle fermate, si trasforma in un luogo trasfigurato dalla schizofrenia di Jef. La scelta di una fotografia tutta basata sui toni del grigio, non fa che esaltare questo senso di irrealtà.
Stessa irrealtà percepibile in parte nell’ultimo film di Melville girato nel 1972, Un flic, il cui eroe non è più un truand, un malvivente, ma un commissario formalmente schierato dalla parte della giustizia. Dico formalmente in quanto anche in questo caso il protagonista occupa una posizione ambigua, continuamente in bilico fra quei due mondi che costituiscono l’universo melvilliano. Edouard Coleman costituisce la fase conclusiva del racconto di un uomo che ha vissuto il momento di massima potenza con Silien e Jef e che ora è costretto nuovamente a confrontarsi con una realtà di cui prima si sentiva il padrone. Da qui la disillusione e la stanchezza di chi continua a lottare ma senza entusiasmo, perché ormai conscio della propria fine. Certamente ritroviamo la ferocia, la ritualità, il desiderio di perfezione nel compimento del proprio lavoro e il cinismo, ma ritroviamo anche un’ombra di umanità che riavvicina Edouard all’ufficiale nazista Werner Von Ebrennac. La musica, il pianoforte che il commissario suona con grande malinconia, è l’espressione più evidente della riscoperta di una passionalità dimenticata. Come anche l’ultimo e apparentemente cinico gesto, l’uccisione di Simon (proprietario del night e colpevole del furto compiuto), è la manifestazione di un sentimento, l’amicizia, che in Edouard trova nuova forza. L’impressione è che Melville abbia cercato di far convergere i due mondi in un unico uomo: un uomo che risolve i casi alla maniera di Jef, dunque con violenza e freddezza e che come Jef sceglie la morte (di Simon) perché conosce il codice d’onore dei malviventi, ma che come Werner ha bisogno del sostegno di amici per riuscire a sopravvivere alla disillusione. Non a caso Edouard in ogni sua missione sarà sempre accompagnato dal fidato e silenzioso (non poteva essere altrimenti) braccio destro.