Drammatico, Sala, Thriller

L’EREDE

Titolo OriginaleLe successeur
NazioneFrancia, Belgio, Canada
Anno Produzione2023
Trattodal romanzo L'Ascendant di Alexandre Postel
Fotografia
Musiche

TRAMA

Ellias Barnès, giovane e acclamato stilista, proprio nel momento culminante della sua carriera parigina è costretto a tornare a Montréal per i funerali del padre.

RECENSIONI

La sfilata iniziale tara l’atmosfera del film e disegna il regno di cui il protagonista è appena divenuto successore. E cruciale, di seguito, il momento in cui Ellias, lo stilista incoronato, sceglie le modelle con le quali dividere la copertina del magazine che lo consacrerà nuovo principe della moda. Escludendo la modella che poco prima, alla sfilata, gli ha fatto i complimenti - per l’immagine troppo legata al precedente stilista -, l’uomo evidenzia da subito la tendenza a pensarsi privo di radici, svincolato da ascendenze, senza riferimenti e ancoraggi al passato. La scelta dell’immagine di copertina è fil rouge dell’intera vicenda (ne consacrerà anche il finale) perché essa, rappresentando la nascita della sua visione creativa, costituisce per lo stilista un’affermazione identitaria affrancata di necessità da quella di un predecessore, un’affermazione parallela a quella intima e personale che si è formata nel rifiuto del modello paterno (per questo il suo nome d’arte, Ellias Barnès, esclude quello di nascita, Sébastien). La ragione del conflitto non viene mai rivelata, ma è evidente che attiene alla natura del genitore, a un “maligno” che il figlio ha sperimentato o col quale è venuto a confrontarsi. E dal quale si dissocia perché teme di incarnarlo egli stesso. L’insistenza con la quale il protagonista tenta di risalire alle cause dell’ictus del padre, prima, e della sua morte, poi, se ovviamente riguarda uno scongiurare la possibilità di un’ereditarietà patologica, adombra (e simboleggia, lo sottolineo) un timore che concerne una ereditarietà complessiva: umana, personale, caratteriale (è evidente che le fitte che lo stilista avverte sono conseguenze psicosomatiche di questo timore). Così il ritorno nel Québec natale è ovviamente un’immersione freudiana in una dimensione familiare con la quale, dopo anni di rifiuto, l’uomo è costretto a scendere a patti. Il ritorno alle radici implica classicamente un confronto con l’immagine che di sé conserva il luogo natale, immagine lontana anni luce da quella che nel frattempo ci si è costruiti addosso, tanto che tornare significa regredire e spesso scoprire che ci si è solo illusi di essere cambiati. Così la scoperta dell’ostaggio nella cantina - recesso oscuro (anche simbolicamente, lo sottolineo di nuovo) del ventre familiare - non determina a caso, in Sébastien (tale è tornato a essere), il brusco riattivarsi di un accento québécois addomesticato da anni di soggiorno parigino.

Se ho sottolineato il carattere simbolico di quanto accade al protagonista nel momento in cui torna in Québec, non è per mettere in discussione il taglio realistico di quello che è il blocco principale del film, ma per evidenziare un aspetto del racconto altrettanto innegabile: la traduzione nei termini dell’incubo della paranoia del protagonista, quella di essere uguale al genitore. Tradotto: se il picco della sua carriera di stilista è stato raggiunto al prezzo del distacco e della rottura familiare, allora per il protagonista la morte del padre deve determinare la perdita di quel traguardo (regnare nella maison) come colpa da espiare e quale conferma della propria identità maligna primaria (in questo senso il film può essere letto come il father side di Hereditary). In qualche modo, infatti, uccidendo accidentalmente la ragazza prigioniera, e seppellendola, l’uomo completa il lavoro del padre. E dunque la vera successione è quella che si consuma in Québec, non quella parigina. È quella di Sébastien, non quella di Ellias. E ciò che il figlio riceve in eredità dal padre non è la casa e le cose che contiene, ma l’ostaggio che nasconde: il suo crimine, il suo peccato.

Legrand, come Ari Aster, usa gli elementi del genere come gamma di toni con i quali dipingere una vicenda intimista, rifacendosi ad atmosfere claustrofobiche e tocchi di ambiguità polanskiani (la vicina di casa troppo gentile e invadente; la sospetta vicinanza di Dominique, l’amico paterno - un pezzo decisivo del puzzle, ma lo capiremo dopo -; la presenza nella casa di abiti maschili che non sono della taglia del defunto) e, centellinando l’acquisizione del sapere dello spettatore (Hitchcock), rivela, con strategica progressione, i termini della situazione e la natura dei fatti. Intendo dire che ambiente, situazioni, personaggi e tutto quanto gravita attorno al protagonista vanno letti anche in termini proiettivi: il senso di minaccia che avverte lo spettatore è quello di Sébastien, lo specchio della sua paranoia. Questo modo di procedere (aspetto insieme metaforico, percettivo e realistico delle vicende, organizzazione della narrazione per ellissi disinnescate gradualmente) appartiene tanto al teatro québécois (da Robert Lepage e René-Daniel Dubois fino a Michel Marc Bouchard e, prima ancora, per altri versi, Michel Tremblay) quanto al cinema canadese (si pensi ancora a Lepage e alle architetture narrative dei film di Atom Egoyan - il cui Captive ha più di un’attinenza con L’erede).

Stante l’ineludibilità delle proprie radici come assunto principale del film («Ho fatto di tutto per non essere come lui» dice Sébastien, «Sei suo figlio e lo rimarrai sempre» sentenzia Dominique), essa informa e nutre il comportamento del protagonista nel momento in cui torna in patria (la intendo proprio etimologicamente, terra del padre). Per cui la reazione alla scoperta dell’ostaggio è uno sprofondare ineluttabile (sottolineo ineluttabile) nell’abisso familiare (la spirale iniziale, la ripresa dall’alto della sfilata, simboleggia l’inesorabilità del vortice ereditario [1]). Non è un caso che le fitte all’addome lo colgano proprio in quel momento: è il mostro paterno che gli morde le viscere, quell’essenza maligna che sente appartenergli, la cui coscienza si risveglia e che, togliendogli lucidità, lo possiede. Le azioni del protagonista (le sue scelte evidentemente sbagliate) sono condizionate dal karma familiare, lo conducono (perché devono condurlo) all’autodistruzione. E che siamo in una tragedia in cui realtà e simbolo sono compenetrati, lo ribadisce il finale: l’IPad mostra la foto della copertina del magazine con la didascalia BARNÈS. LE SUCCESSEUR che abolisce lo pseudonimo Ellias e impone il solo cognome attraverso il quale si sovrappone l’identità del figlio a quella del padre. A quel punto l’ambivalenza della scritta LE SUCCESSEUR si fa evidente. Un attimo e lo schermo torna al nero, l’immagine scompare e forse, con essa, anche Sébastien. Il balcone aperto e i rumori esterni suggeriscono il coerente finale tragico.

[1] Legrand, come in L’affido, il suo primo film, parla - tra le righe di questo rapporto patrilineare - di mascolinità tossica. Nella bella intervista di Fiaba Di Martino su Film Tv 7/2025, così il regista: «La spirale già di per sé evoca l’immagine di un’ossessione, l’incubo, il girone dantesco infernale. Inoltre, la spirale è un movimento di non ritorno, come lo è l’arena greca. Trovavo importante cominciare suggerendo questo sentimento anche perché L’erede è un film che parla di uomini, di rapporti fra gli uomini, e sentivo quindi che fosse giusto partire con un esercito di bellissime donne che sfilano, donne che però in questo mondo - della moda, degli uomini - sono oggettificate, corpi che esibiscono un prodotto.»