TRAMA
Nino e Rina, farmacisti, hanno passato una vita insieme nella loro casa in campagna a pochi chilometri da Ferrara. Ora che lei non c’è più, lui si sente solo e smarrito, e poco riesce a fare chi gli vuole bene. Sua figlia, a capo di un’importante casa editrice, pensa allora di chiamare un ghostwriter – che accetterà la proposta, nella speranza di farsi pubblicare quel suo romanzo che sembra non interessare a nessuno – per affiancare Nino e raccoglierne le storie, le memorie, il sentimento per Rina, in un libro.
RECENSIONI
Si sono sposati promettendosi l'«immortalità». Ora che lei non c'è più, dopo 65 anni insieme, tutti dicono a Giuseppe, a 'Nino', che l'ha perduta. Invece Lei mi parla ancora, sostiene lui, e la notte è fatta per incontrarla, ancora, nel loro letto di sempre. C'è, alla base di quest'ultimo film di Pupi Avati, l’omonimo memoir di Giuseppe Sgarbi dedicato a sua moglie Caterina, 'Rina', Cavallini (pubblicato prima da Skira e di recente dalla Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi che, in Lei mi parla ancora - Memorie edite e inedite di un farmacista, ha raccolto anche gli altri romanzi dell'autore). Giuseppe, padre di Vittorio ed Elisabetta, farmacista diventato scrittore a 93 anni e morto a 97, nel gennaio 2018, non a molta distanza dalla scomparsa di Caterina (1926-2015). Pupi Avati, con suo figlio Tommaso che continua a coadiuvarlo nella sceneggiatura dei suoi film, qui intercetta altri figli e altri padri, altre figlie, altre madri, e cerca l’incastro tra dimensioni plurime, tra autobiografie dirette e traslate, tra il passato e il presente, e tra luoghi vicini e lontani, ambientando la narrazione fra Roma, Ferrara e Ro Ferrarese, fra le corriere di una volta e treni Italo, tra le ritornanti figure (anche di attori) del suo cinema e ciò che resta. Fa incrociare i morti e i vivi, il sogno e la veglia, le dimensioni temporali, quelle sentimentali, i fantasmi e la realtà.
Ricerca sempre soglie, Avati, tra una sfera e l'altra, tra un personaggio e l'altro, un paesaggio e l'altro, persino tra un volto, un corpo attoriale e l'altro. Rimemorializza memorie, le mette in circolo, e in questo sembra assomigliare al suo protagonista. Che, negli anni di gioventù, è interpretato da Lino Musella e in quelli della vecchiaia è invece Renato Pozzetto, mentre la giovane Rina è Isabella Ragonese e l’anziana è Stefania Sandrelli.Un film che è sdoppiato nel tempo ma in cui un'altra temporalità può insinuarsi e fare incontrare Pozzetto con Ragonese (a rassicurarlo che non l'ha perduta); un varco in cui chi non c'è più continua a esserci, un tempo irreale più che onirico, e che è la giovinezza del mondo, è il fiume, è l'estate, e porta fino a Ingmar Bergman, a un cineforum all'aperto moderato da un parroco. È un film sulla necessità dell'illusione, afferma il regista. Forse perché, prima o poi l'amore ritorna, l’amore (è) ritrovato – per dirla con Sergio Rubini e Carlo Mazzacurati –, e l'omaggio del regista all’amore di Nino Sgarbi e Rina Cavallini sembra esserlo anche a quello di Pozzetto – un altro comico drammatizzato da Avati – e sua moglie Brunella Gubler, morta nel 2009 (recentemente l'attore ha dichiarato che proprio il non sognarla, il non rivederla, è per lui motivo di angoscia).
Lei mi parla ancora è un film di personaggi ora prossimi, ora distanti, che ruotano intorno al cuore del racconto e scompaiono, riappaiono; di inquadrature in cui qualcuno mancherà sempre (l'Elisabetta Sgarbi di Chiara Caselli, ad esempio, sembra quasi avere esistenza tra il film e l'esterno). È un film di appartenenze certe e di altre sfuggenti, come quella del ghostwriter Amicangelo interpretato da Fabrizio Gifuni, che è riuscito a "essere" un calciatore, uno chef, un politico della stagione di Tangentopoli, ma che vorrebbe solo veder pubblicato finalmente il suo primo romanzo; che vorrebbe essere un autore, e che davanti alle storie di Nino, a un certo punto, è tentato di abbandonare il progetto, perché “essere” Nino, così lontano da lui, come crede che sia, è troppo difficile. «L’'uomo mortale – dice l'anziano allo scrittore che ignora si tratti di Cesare Pavese prossimo alla fine – non ha che questo d’immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia». Un film della morte e dell'amore, necessariamente insieme. Ma lucidamente trasfigurati. Di una lucidità privata, aperta, ma controllata. Da adombrare forse – dietro le stanze della casa, dietro i ricordi, dietro le vite precedenti, dietro i «capolavori» (le opere d'arte collezionate dalla famiglia, a partire da Rina, in decenni e decenni) – l’ultimo spettacolo, il più bello: la commozione.
