TRAMA
Negli anni sessanta, dall’East End londinese, i gemelli Kray assumono il controllo del crimine in città. Ron è un omosessuale paranoide, Reggie è più assennato e s’innamora di Frances, cui promette di rigare dritto.
RECENSIONI
La leggenda dei Corvi
Dopo 42, un’altra bio-legend per Brian Helgeland, che si basa (anche) sulle pubblicazioni di John Pearson, cui gli stessi Kray commissionarono il proprio profilo nel 1967: trasmigra a Londra e introietta stilemi di una cinematografia che (vedi Mr. Nice di Bernard Rose o lo stesso Bronson di Nicolas Winding Refn, sempre con Tom Hardy), pur ascrivendosi nella moda di biografie criminali agiografiche/scanzonate, le ha declinate con distanziazione ironica, fra grottesco e aderente-pulp. Da sempre carente nella messinscena, finalmente Helgeland “gemella” ideazione (sceneggiatura) e “azione!”, nasconde lo split-screen così “due è uno” (e “uno è due”: Tom Hardy): egregi il montaggio, l’uso del commento sonoro e la calibrazione della miscela, che ama, di sangue, cuore e riso amaro. La dualità è estetica, le dissimulate intenzioni da commedia, la voce narrante da Viale del Tramonto, la stessa “mascherata” degli Inseparabili di Tom Hardy, dissociano dal rappresentato e, se si perde l’impatto dei temi umano/gangsteristici comunque convenzionali, questo iato porta in primo piano se stesso: mentre il racconto è concentrato, violenza a parte, sul “triangolo” fra Reggie, Frances e Ron (dove Ron rappresenta il legame di sangue e la natura gangster), il punto focale è la prova sdoppiata di Hardy, il “se stesso” riconoscibile ma distinto, l’evidente finzione che meraviglia nel tentativo di non esserlo. Volutamente, i due Hardy/Kray sono impegnati anche in interazioni sopra le righe, dove è arduo discernere l’ironia insita nelle dinamiche da loro agite “nel film” da quella che riflette/lavora sulle dinamiche dello (stesso) attore che li interpreta (la battuta di Ron: “Non sono me stesso, non siamo noi”). Riflessione a margine ma non troppo: il precedente I Corvi (The Krays, per carità) di Peter Medak (scritto dall’immenso Philip Ridley) era un capolavoro, fra i più sottovalutati e colpevolmente dimenticati. Osava in modo sublime, con lo scomodo intento di analizzare la psicologia dis-umana dei due gemelli. Era visionario ed inquietante, pur nell’abbraccio di un sarcasmo feroce. Sappiamo per certo, quindi, che tutto ciò che Helgeland ci sta mostrando poteva percorrere rivoli meno scontati.