TRAMA
Turingia, fine Ottocento. Un collegio femminile sottopone le ragazze a regole ferree e le inizia all’arte della danza.
RECENSIONI
Tratto da Frank Wedekind (sulla sceneggiatura la mano di Lattuada), dopo gli splendidi titoli di testa che evocano THE COMPANY di Altman il film di Irvin semina generica inquietudine (la masquerade della servitù) ma sembra ricalcare pedissequamente lo stereotipo della vita collegiale: la purezza delle creature cozza con la brutalità delle loro educatrici, le ninfe sognano la libertà in riva al torrente (da cui il posticcio sottotitolo), sulla camerata aleggia l’ombra di Saffo. Quando, con la scoperta della vetusta stanza segreta, il plot sembra toccare il fondo allora si verifica l’inversione di marcia: nella seconda parte THE FINE ART cambia radicalmente, diviene thriller scabroso a venatura horror, mostra l’indicibile con spietata naturalezza. Discostandosi dal placido buonismo di molta produzione corrente Irvin non teme la visione: eccoci dunque la prima ballerina a letto con l’istruttrice di danza, una ragazza sbranata dai cani ed altri piccoli omicidi a piacere. Da qui una deviazione in zona d’ombra che culmina con la scena, bella e terribile, della stupenda danza di Hidalla che risveglia l’appetito deviato del Principe. Ci vuole un coraggio da leone a firmare un film così: lamento gotico di walpoliana memoria, imperfetto ma infinitamente stimolante, questo sfodera la scomoda impudenza di un finale lancinante senza speranza. In un cast di medio livello (tra cui la nostra Grimaldi, essendo il film cofinanziato da RaiCinema) si distingue la piccata alterigia della solita Bisset e la tenera, prepotente bellezza di Mary Nighy (Hidalla), vipera incantatrice che danza tuttora nei nostri cuori.