Drammatico

LEBANON

Titolo OriginaleLebanon
NazioneIsraele/Francia/Germania
Anno Produzione2009
Durata92'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Prima guerra del Libano, giugno 1982. Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana.

RECENSIONI

Rigido. Lebanon è un film rigido.
Inquadrato in un meccanismo talmente solido da rimanerne imprigionato, fa della guerra un pretenzioso e programmatico esercizio di stile, tra cerebralismi autoreferenziali e palesi esibizioni retoriche che lasciano poco spazio al faticoso affiorare della tragedia umana. Il carro armato rimane solo ferraglia, il soldato solo acciaio.
Prima di tutto è palese riconoscere l’espediente meta- nella costruzione dello sguardo. Tutto è filtrato dall’occhio meccanico del cingolato, protesi della verginella Shmulik che ci introduce lentamente nel contesto bellico. La guerra è quindi vissuta come un’esperienza percettiva. Ruotando intorno a questo asse scopico, Lebanon si sviluppa in due parti ben distinte: da una prospettiva spettatoriale inconsapevole (la non esperienza dei soldati, rigorosamente sottolineata dai loro atteggiamenti immaturi), giungiamo all’irrompere della guerra all’interno del carro armato, con tutte le prevedibili derive psicologiche annesse (paura, pazzia, regressione infantile, etc). Nel primo segmento il punto di vista di Shmulik è connotato da un sapere passivo e parziale, mediato com’è dal plotone che lo scorta nel territorio libanese. Oltre al mero dato gerarchico di eseguire gli ordini (elemento fin troppo calcato dallo stereotipo di Jamil), ciò viene messo in evidenza nella limitazione del campo visivo che, tra ostacoli scenografici e militari che coprono l’oggetto dello sguardo, nega una presa di coscienza diretta con l’evento mostrato. La consapevolezza però si infiltra piano piano, grazie al progressivo legame instauratosi tra lo sguardo di Shmulik e quello di alcune vittime del conflitto. Tralasciando l’opinabile substrato simbolico di ognuno di questi personaggi, noteremo come lo sfondamento del meccanismo filmico e la conseguente irruzione - metaforica -della guerra (banalmente sentenziato dalla rottura dell’ottica del mirino) avvenga nella graduale affermazione di uno sguardo in macchina. Dal venditore di pollame dilaniato dall’esplosione che sembra rispondere al nostro tentativo di guardarlo (ma non lo fa), passando sul bulbo di un asino sventrato, sugli occhi di un cieco, arriviamo al confronto diretto della libanese denudata (guarda un po’) che, per alcuni lenti e toccanti (?) secondi, ci fissa, sentenzia la nostra presenza. Ma andiamo oltre, in un vero e proprio oltrepassamento, in una vera e propria fusione tra le due realtà (esterno-interno) che, fino a quel momento, si presentavano come separate, nell’attacco di un soldato che ci spara dritto in “faccia” con un bazooka. Per confermare ancora di più questa riflessione, noteremo come il nostro carnefice diventerà vittima (viene fatto prigioniero e tenuto legato all’interno del carro armato), ma, per inneggiare ad un briciolo di umanità rimasta (la vera essenza del processo di finta formazione), farà parte di un abbraccio fraterno che unisce tutti quanti – al di là dei fazionismi preimposti – di fronte alla tragedia, collettiva, della guerra.
Arrivati al secondo segmento, ci inoltriamo in una vera e propria dimensione interiore, figurativizzata spudoratamente da una miriade di precisi elementi. Chiaro che il carro armato sia il riflesso – la mancata camera oscura, se vi piace – della condizione morale (l’aumento irrefrenabile di sporcizia come decadimento di questa) e fisica dei soldati. E’ importante soffermarsi sul secondo aspetto che con troppo coraggio viene manifestato nella totale simbiosi tra il mezzo e l’uomo, dove il metallo inizia ad amalgamarsi con fluidi organici fino a sembrare egli stesso l’origine di questi (i cereali-vomito sparpagliati dappertutto, l’olio-piscio che riempie un comando, etc). Emergendo la natura umana, emerge anche la natura della guerra. Resta la fuga in prenda alla totale cecità (il malfunzionamento dei comandi) e la “maturazione” di Shmulik che sostituisce il suo superiore svarionato e prende in mano, attivamente, la vita dei suoi colleghi, per finire nel modo più scontato tra quei girasoli.
Se da una parte le intenzioni, in particolar modo visive, di Lebanon hanno un suo fascino nel primo segmento analizzato (al di là dei limiti di un congegno troppo simile ad un compitino ben svolto, lontano da una vibrante dimensione emotiva) con l’angosciosa mobilità della mdp, supportata da un efficiente uso del sonoro (l’aspetto più interessante dell’opera) ed una coincisa articolazione dello sguardo (stacchi sull’asse nel perlustrare la realtà esterna, lento ed esasperato virtuosismo nei movimenti di macchina nel crescere della tensione), dall’altra si perde la bussola, rimaniamo letteralmente impantanati in una componente psicologico- drammatica che rimane vittima, secondo previsione, di un ossessiva costruzione visivo-metaforica. Non emerge granché, il dramma, al di là di stereotipi che nell’approccio ironico si fortificano ancora di più, si congela nell’esibizione elementare della concettualità metadiscorsiva.

Sono giovani e mandati a combattere una guerra contro un nemico che conoscono molto poco (e che poco conosceranno). Strappati alle famiglie dalle logiche (inter)nazionalistiche ma rinchiusi in un altro ventre, quello della madre guerra. Il cingolato nel quale si svolge quasi interamente Lebanon di Samuel Maoz è difatti concepito quasi come un elemento organico e vivo, ansimante, stillante svariati umori e liquami, pronto ad espellere i soldati formati dall’esperienza bellica quando sarà l’ora. Il nuovo parto avverrà in un desolato campo pieno di girasoli a capo chino, quasi vergognosi di guardare in faccia il sole.
Il meccanismo claustrofobico di Lebanon è maneggiato con cura e dedizione ma meccanismo rimane. Le pulsioni voyeuristiche innescate dall’unico punto di vista sul conflitto, quello occluso e via via incrinato del mirino del periscopio, si arrestano allo stadio di una soggettività esasperata. Il nemico (sia esso civile o armato) rimane un obiettivo vago e bidimensionale su cui posare al più l’occhio di una pietà generalista (la sequenza della donna denudata dall’esplosione ha un che di odioso che non riesco ancora a decifrare). Il nemico ci fissa ma noi non lo vediamo davvero.
Assieme all’illustre precedente di Valzer con Bashir di Ari Folman, Lebanon fotografa l’elaborazione israeliana del conflitto in Libano come un rimosso che riaffiora tempo (anni) dopo, nel quale il nemico ha un viso ma non è ancora una persona (in entrambi i film compare la medesima inquadratura dell’occhio di bestie morenti) e la coscienza dell’orrore della guerra si lega a un processo di autoassoluzione per “incoscienza” dei fatti. Se però nel film di Folman l’uso di un’insolita animazione ipnotica e visionaria cedeva sul finale a un brutale squarcio documentaristico in cui il ricordo del soldato israeliano incontrava il ricordo dei sopravvissuti libanesi al massacro di Sabra e Chatila e con quello si saldava, in Lebanon questa dialettica risulta molto più vaga, diluita in una drammaturgia teatrale un po’ stereotipata nel disegno dei caratteri, intrisa di antimilitarismo a senso unico e lamentazioni da gioventù spezzata. Il nemico introiettato dentro il tank rimane ai margini, presenza muta e funzionale a una sequenza finale di solidarietà (e, a voler pensare male, è comunque arabo l’unico personaggio davvero negativo del film, il falangista, reso con dei tratti un po’ troppo caricati).
Dunque? Sommariamente corretto, efficace negli obiettivi elementari (l'indignazione, la denuncia), engagé e con quel tot di invenzione visiva che non guasta. Mai come davanti a questo film ho trovato adeguato l’antipatico termine di “film da festival”.