TRAMA
Germania dell’Est. Un agente della Stasi, Hauptmann Gerg Wiesler, è incaricato di spiare e vivere la vita del drammaturgo Georg Dreyman, forse non abbastanza fedele al regime.
RECENSIONI
Robusto e avvincente come un discreto film americano classico, Das Leben der Anderen segna il successo internazionale più clamoroso della stagione, di critica (Oscar, Oscar europeo, Premio del pubblico a Locarno, dopo il “gran rifiuto” dei selezionatori di Berlino e Cannes) e di pubblico (sale gremite a Berlino come a Parigi, commozione diffusa, applausi scoscianti). La novità più evidente del film del trentaquattrenne Florian Henckel von Donnersmarckt, al suo primo lungometraggio, quella che sembra maggiormente aver commosso ed avvinto l’opinione pubblica determinandone il trionfo è costituita dalla riapertura, in chiave genre (spy story+melò), di una delle pagine rimosse, e dunque non visibili, della recente storia tedesca (dell’ex Repubblica Democratica dell’Est): la prima metà degli anni ’80, periodo che coincise con la deriva paranoide del regime, che segnò l’acmè dello spionaggio, dell’uso della tortura fondata sul terrorismo psicologico disumano e disumanizzante, causando un aumento impressionante dei casi di suicidio nel milieu intellettuale.
Questioni come la libertà d’espressione, la dignità dell’arte e dell’uomo da opporre al controllo capillare del regine, della censura e della repressione sistematica del dissenso, la creatività stimolata dell’oppressione si impongono presto su nodi più problematici o niente aggiungono alle Conversazioni cinematografiche del passato. In questo senso, il titolo trae in inganno: non si tratta della vita degli altri, ma “soltanto” della vita di un altro, questo per dire che il fatto specifico resta tale, non avendo un respiro abbastanza ampio da elevarsi a paradigma universale, di “condizione”. Il regista gioca, dunque, su elementi che possano suscitare l’immediata indignazione più che la riflessione, senza peritarsi troppo di scendere in profondità, di scavare al di sotto della superficie degli eventi e dei personaggi, cedendo spesso ad una retorica del senno di poi che pare figlia di una visione teleologica della Storia che lascia il tempo che trova. A titolo di esempio, relativo alla costruzione dei caratteri, perché, dopo aver cesellato con il giusto rigore ed invidiabile pulizia formale un personaggio potenzialmente “opaco” come l’agente della Stasi (la sua solitudine, la sua alienata disumanità), affida alla più ovvia delle tattiche il compito di suggerire la genesi del ravvedimento dell’uomo (folgorazione sulla “via di Brecht”)? Perché, al contrario, non approfondire il transfert tra lo scrittore e l’agente, lo spiato e la spia, ben più interessante e “determinante”? Perché questa discrepanza, questo scompenso tra la messa in luce delle ragioni delle vittime e dei torti dei carnefici?
Confermando la buona fattura (ottima tenuta drammatica, montaggio serrato, efficace mise en espace, bella fotografia dalle tonalità fredde), con qualche riserva sul cast (notevole Ulrich Mühe, mentre il drammaturgo Sebastian Koch, già visto nell’orrido Black Book, ha, a mio avviso, l’espressività di un carciofo lesso), resta tuttavia il rimpianto per un’occasione in parte mancata: nulla è da leggere in filigrana, nulla è da cogliere al di sotto di un primo (ed unico) livello semantico.

Allora, il 4 e ½ è un po’ il punto fermo di questo commento, un punto fermo perfettamente compatibile con la constatazione che Le vite degli altri ha tutte le carte in regola per piacere a pubblico e critica, grandi e piccini, oves et boves. Non stupisce quindi che abbia rastrellato premi e consensi ovunque, meraviglierebbe il contrario (affermazione che non vuol dire assolutamente nulla, dunque assolutamente necessaria). Insomma. Il fatto è che al cospetto di un polpettone simile risulta impossibile non chiedersi come mai faccia gridare al capolavoro. Domanda oziosa, direte voi. Ma di tanto in tanto vale la pena (ri)farsele domande del genere, replico io. La formula vincente pare davvero essere la stessa da millenni (tipo squadra che vince non si cambia): temi edificanti, narrazione didascalica e spiegazionismo a palate. La Stasi che spia, origlia e sorveglia, gli intellettuali che a lungo andare sbarellano perché si sentono imbavagliati e la Storia che, seguendo percorsi tutti suoi, sta per lanciare nell’assurdo tutto questo spreco di vite umane. Non possiamo difatti ignorare che la nostra prospettiva spettatoriale getta sull’intera vicenda la luce indignata dell’assurdità, primo elemento di cui tenere conto nella valutazione dell’esordio registico di Florian Henckel von Donnersmarck. Tralasciando il particolare che col passare dei minuti viene sempre più voglia di diventare stalinisti inflessibili, Le vite degli altri fa sì riflettere, ma non per le tematiche affrontate quanto per la slealtà dell’approccio: simulando un trattamento frontale e rigoroso della materia (inizio secco, taglio visivo disadorno, linearità conclamata), il film di von Donnersmarck circuisce sistematicamente lo spettatore. Il clima apparentemente freddo e antiretorico della messa in scena viene smentito da mille astuzie che manipolano i sentimenti dello spettatore, posizionandolo in modo tale che non possa mai muoversi dal luogo affettivo allestito per lui dal film, pena la sospensione della sospensione dell’incredulità (cosa che ho esperito personalmente e di cui mi faccio testimone oculare e anche auricolare). Uso sequestrante delle soggettive (si veda la sequenza in teatro), commento musicale insinuante, untuosi carrelli circolari, montaggi alternati emozionanti e via commovendo: tutto contribuisce a costruire una spettatorialità calda e malleabile, pronta a versare lacrime alla battuta prestabilita. Il che in fondo non sarebbe neppure un male se il film giocasse a carte scoperte e si presentasse come un drammone lacrimogeno et edificante. Ci si domanda che senso abbia sbandierare lo scrupolo filologico delle ricerche e il presunto realismo della rappresentazione quando il risultato è un film che inibisce qualsiasi rielaborazione delle immagini, inchiodando lo spettatore al ruolo di generatore di una gamma affettiva ristretta e coatta. Pavlov? Riflessi condizionati? No, un film all’insegna della libertà. Ecco il perché del punto fermo.
