TRAMA
Torino, oggi. Dentro e fuori il Banco dei pegni: oggetti personali impegnati, con la speranza di poterli riscattare presto; oggetti messi all’asta; ricettatori per le strade a succhiare altrui angosce. In mezzo a tutto questo, tre microstorie si sfiorano e s’incrociano. I debiti generati dalla crisi economica sono anche quelli esistenziali.
RECENSIONI
Voleva essere un documentario – e di quello sono rimasti matrice e andamento, l’attitudine che prova a farsi sguardo – ma ragioni di privatezza e divieti ne hanno fatto un lungometraggio di fiction, il primo della regista Irene Dionisio, torinese classe 1986, che proprio dal documentario proviene (La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti, Sponde. Nel sicuro sole del nord) e che nella sua formazione ha incontrato docenti come Marco Bellocchio, Daniele Segre e Alina Marazzi.
Dalla SIC di Venezia 2016, Le ultime cose: alla base, una lunga ricerca di otto mesi caratterizzata da incontri con impiegati, clienti e ricettatori, a fornire materiale e spunti da porre poi in narrazione. E così, nelle note di regia, Dionisio riassume il suo punto di vista sullo stato delle cose, suo ciò che ha visto, sullo stato di un capitalismo odierno che produce «una società fondata sullo scontro ed epocale tra debitore e creditore. Il banco dei pegni è in luogo in cui questo scontro si “materializza”. Un luogo che brulica di vite vissute, volti, storie, all’interno del quale l’essere umano sembra spogliato delle sue sembianze naturali: fragile, piccolo, impotente di fronte a una rete organizzata e possente, senza nome né possibilità di essere interpellata». Ma quello che avviene in Le ultime cose è proprio lo svaporamento di ogni assunto, o peggio di ogni moralismo facile nel racconto: lo spazio, il centro e i margini sono proprio quelle vite, quelle storie. Tre vicende che scorrono in parte parallele e poi trovano punti di contatto, occhi che si guardano, parole che cercano altre parole, ma sono anche distanze e solitudini che si divaricano, impossibilità comunicative, slanci interrotti, destini che si smarriscono o votati alla sconfitta. Nell’intreccio, i percorsi di Stefano (Fabrizio Falco), perito appena assunto al Banco dei pegni, giovane e gentile, scrupoloso e sensibile, tutto quello che il suo superiore Sergio (Roberto de Francesco), cinico e speculatore, infido, non possiede o forse, chissà, ha perso nel tempo; Sandra (Christina Rosamilia, qui al suo debutto sullo schermo), trans rientrata in città dopo molti anni, rifiutata ancora dalla famiglia; Michele (Alfonso Santagata), pensionato che per racimolare denaro si unisce all’attività del cognato ricettatore (Salvatore Cantalupo).
Ma più che una coralità, più che una trama, Le ultime cose è una struttura data per sequenze che sono attimi, costruita per accostamenti sottili, per deviazioni e ritorni, per ripetizioni e scarti, è il tentativo di una sintesi (in questo senso anche il personaggio interpretato da Anna Ferruzzo diventa una sorta di attraversamento del film). Il filmare osservativo di Dionisio è la sua vicinanza ai personaggi, vuole essere – senza forzatura, senza sottolineature – stratificazione dello sguardo, un avvicinamento graduale, occhi che non siano quelli delle videocamere di sorveglianza che registrano con la stessa amorfa impassibilità i movimenti dentro una stanza del Banco dei pegni e un uomo che cade a terra tra le strade, beffato dai battiti del suo cuore. I personaggi non sono psicologie ma tratti, impronte, svelamenti negati o sottili, effimeri. Forse, quello che manca – tanto più considerando il talento e una certa consapevolezza anche teorica della regista – è per così dire un gesto registico che si conceda al rischio dello sbilanciamento, di una rottura, un’effrazione oltre il “tangibile”: di certo non per mistificare, ma per schiudere in maniera ancora più potente e viva il reale.
