Horror, Recensione

LE STREGHE DI SALEM

Titolo OriginaleThe Lords of Salem
NazioneU.S.A./ Gran Bretagna/ Canada
Anno Produzione2012
Genere
Durata101’
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Heidi, deejay di una famosa radio locale di Salem, meglio conosciuta come la città delle streghe, riceve in regalo una scatola di legno con all’interno un vinile, “un regalo dalle streghe”. Credendo in una trovata originale di un nuovo gruppo musicale, la ragazza ascolta i suoni che provengono dal disco e presto ne viene condizionata, perdendo progressivamente il contatto con la realtà. Sta diventando pazza o le streghe di Salem stanno per tornare? (dal pressbook)

RECENSIONI

Tra le rimostranze più deprecabili che sia dato muovere in una recensione cinematografica vi è senz’altro la protesta indirizzata al doppiaggio, perciò mi affretto a farla per spazzare via ogni equivoco: il tono caricaturale e vagamente demente che, giusto a titolo esemplificativo, affligge il sabba iniziale di The Lords of Salem semplicemente non sussiste nella versione originale. Certo, le voci di Margaret Morgan (Meg Foster, una delle tante icone attoriali che costellano il film) e della sua stregonesca congrega non suonano propriamente brechtiane, eppure l’enfasi formulaica che le incanaglisce non sovrasta di un’ottava la tonalità grottesca della messa in scena, ma si accorda sardonicamente alla sua gradazione sulfurea e profanatoria. Non si tratta qui di rigettare la pratica del doppiaggio in quanto tale - abolizione che, peraltro e a chi scrive, apparirebbe come una liberazione - ma, più circostanziatamente, di rimarcare che per una pellicola come questa, veleggiante a ridosso dello smash or trash, stravolgere timbro, dizione e intonazione delle voci significa compromettere irreparabilmente l’assetto complessivo del film.

Difficile non qualificare Le streghe di Salem come l’opera della maturità di Rob Zombie: basta ripercorrere sommariamente la sua filmografia per constatare un rovesciamento pressoché totale rispetto al film d’esordio - quell’House of 1000 Corpses (2003) interamente consacrato all’irruenza audiovisiva e alle tattiche di stordimento - e una riconfigurazione altrettanto radicale della nostalgia nichilisticamente peckinpahiana di The Devil’s Rejects (2005) o dell’ossessività psicotica dei due Halloween (2007, 2009). A quest’altezza cronologica, animatamente esteriorizzati gli ultimi fantasmi metacinematografici nello sfrenato The Haunted World of Superbeasto (2009), Zombie fa beatamente e dannatamente cinema. Ci si potrebbe sbizzarrire a rincorrere modelli e riferimenti più o meno stringenti e altisonanti (dalle evidenti assonanze sataniche con Rosemary’s Baby al geometrico esoterismo di Kenneth Anger, passando per le felpate traiettorie visive di Shining o per il manifesto omaggio a Méliès), ma ciò condurrebbe inevitabilmente nel vicolo cieco della filiazione e della derivatività, ignorando il codice genetico del film.

Impaginato come un diario luciferino e introdotto da un’inquadratura ipnagogica di Heidi (Sheri Moon) che piazza virtualmente l’intero film in uno stato di coscienza fluttuante, The Lords of Salem ha gli stessi cromosomi cinematografici di alcune pellicole anni ’70 quali Let’s Scare Jessica to Death (John Hancock, 1971) o Messiah of Evil (Willard Huyck e Gloria Katz, 1973), quest’ultimo liberamente parafrasato nella scena dell’emorragia pittorico-onirica ambientata nel bagno di Heidi. Due horror di dichiarato impianto espressionista che giocano più sul graduale accumulo di segnali sinistri e sulla snervante composizione di un quadro allucinatorio che sull’aggressione improvvisa e terrorizzante. Ed è all’insegna della medesima strategia destabilizzante che Le streghe di Salem lavora lo spettatore ai fianchi, seminando lungo il tragitto sagome incombenti e silenziose apparizioni, inopinati rigurgiti sabbatici e incongrue manifestazioni maligne. Si presti attenzione alla breve sequenza in cui i ratti - una delle due sole paure al mondo di Superbeasto, per inciso - invadono il corridoio fuoriuscendo dall’appartamento 5, mentre Heidi resta imbambolata a guardare il movimento meccanico dell’ombrello che ruota sulla testa del pupazzo a forma di morte: vero e proprio Zombie Touch.

Ma, al di là dei rapporti di consanguineità filmica, The Lords of Salem trasuda voglia di fare cinema e affidare alla visione un ruolo preponderante. “I wanted to do something completely different from what I’ve done before, so the camera movement is very deliberate, very slow-paced”: in questa dichiarazione del musicista/cineasta americano risiede la quintessenza della pellicola, a prescindere dalla quantità erogata di terrore o raccapriccio. Si tratta insomma di un film che si affida non tanto e non solo alla visionarietà, quanto, più intrinsecamente, alla visualità. A differenza degli horror combustibili e maliziosamente autoironici che provengono dalle stesse latitudini - si pensi a Insidious (James Wan, 2010), peraltro prodotto dalla stessa Haunted Movies - il settimo lungometraggio cinematografico di Rob Zombie si rifiuta d’immolarsi sull’altare dello spavento epidermico o del gore ripugnante, assegnando vigorosamente al lavoro della camera (carrellate misuratissime, panoramiche magniloquenti, inquadrature trionfanti) il compito di generare nello spettatore un’inquietudine persistente non soltanto retinicamente.

Alla creazione di questa eccedenza cinematografica contribuisce l’orchestrazione luministica del direttore della fotografia Brandon Trost (già al fianco di Zombie in Halloween II), che, applicando idealmente il precetto di visual relativity enunciato da Gordon Willis, concepisce una partitura figurativa iridescente e dissonante. La prima parte del film (lunedì e martedì), quasi esclusivamente immersa nell’oscurità e costretta in interni, esaspera i contrasti tra le zone non illuminate e le incandescenti sorgenti luminose che spesso proiettano aloni e riflessi sull’obiettivo della camera, mentre la seconda (mercoledì) si concede tenui aperture che virano verso morbidezze cromatiche autunnali. Improntata a un crescendo allucinatorio, la terza parte (giovedì e venerdì) radicalizza da un lato l’ossessiva cupezza degli spazi chiusi e dall’altra ospita schegge incubiche ed espansioni grandiose che preparano la deflagrazione visionaria dell’ultima sezione (sabato), squarciata da luminescenze al calor bianco, liquefazioni iconoclastiche e fulgori fiammeggianti. L’epilogo angeriano, di una radiosità gloriosamente accecante, incorona con lapidaria, imperiosa prepotenza il fasto di una montagna sacra fatta di carne, seta e Velvet Underground: All Tomorrow’s Parties.

Dopo la coppia in omaggio al new horror anni settanta di Tobe Hooper e Wes Craven (La Casa dei 1000 Corpi e La Casa del Diavolo) e quella, più su commissione, che ha rinverdito e chiuso definitivamente l’Halloween di John Carpenter, Rob Zombie, devoto cinefilo dell’orrore, ripesca il filone setta-satanica in voga negli anni sessanta, impregnato di realismo e naturalismo inquietante, da Rosemary's Baby a The Wicker Man, fino al dimenticato Il Grande Inquisitore di Michael Reeves. Del primo film sa replicare le sotterranee inquietudini, ma aderisce troppo alle sue traiettorie, componendo un racconto risaputo e senza sorprese, con la donna vittima ignara in percorso biblico, circondata da persone che si rivelano parte del complotto per la solita nascita dell’anticristo; inoltre, manca l’appuntamento con la componente più suadente di quell’opera, quella psicologica e thriller, parto di una descrizione minuziosa (qui assente, se non in segni superficiali) dei sentimenti ansiosi della protagonista. Del secondo film, in un primo momento, restituisce bene l’inquietante antropologismo con paganesimo, ma ne perde presto le tracce, preferendo i segni scenografici grassi dei rituali satanici. Del terzo ripesca il verismo e la crudezza nella ricostruzione storica, ma i flashback, in questo senso, sono esigui e, in generale, ci si addentra poco nel passato. È un peccato perché Zombie è talentuoso e, a tratti, incute davvero timore con questa porta numero 5 inquadrata in continuazione, questo vinile che mangia le anime (non ci aspettiamo di meno da un musicista), certe visionarietà sobrie ma potenti (lasciando i “mostri” in secondo piano, non visti dalla protagonista) o potenti perché del tutto visionarie (vedi il finale, dove Zombie mette a frutto i “trucchi artigianali” dei numerosi videoclip musicali che ha girato, per un delirio satanico anticlericale oltraggiosamente sessuale alla Ken Russell): ma commette l’errore di dire e mostrare una volta di troppo (cosa che non faceva, previo mezzo televisivo, il magnifico Le Notti di Salem di Hooper). Mostrare: ben vengano gli esseri umani con maschere inquietanti, le capre e le vecchie streghe ignude, ma dal primo mostro visto di spalle al nano deforme “parassita” e con cordoni ombelicali, Zombie rischia il ridicolo involontario (o, se davvero rincorre il kitsch inquietante di Ken Russell, non gli riesce). Dire: spiattellare tutto ciò che riguarda la maledizione, di cosa si tratta, su chi si abbatterà, quale scopo si prefigura, impoverisce il racconto, lo imbriglia in un percorso obbligato, dove l’unico elemento inatteso è la figuratività (o le citazioni dirette che passano in Tv).