TRAMA
L’estate di quattro sorelle capeggiate da Gelsomina, la primogenita, l’erede del piccolo e strano regno che suo padre ha costruito per proteggere la sua famiglia dal mondo “che sta per finire”. È un’estate straordinaria, in cui le regole che tengono insieme la famiglia si allentano: da una parte l’arrivo nella loro casa di Martin, un ragazzo tedesco in rieducazione, dall’altro l’incursione nel territorio di un concorso televisivo a premi, “Il paese delle Meraviglie”, condotto dalla fata bianca Milly Catena.
RECENSIONI
Se è vero che per un giovane regista l’opera seconda è il film più difficile, allora Alice Rohrwacher ha superato la prova più che brillantemente. Ammessa alla competizione cannense con il suo Le meraviglie, la giovane regista toscana è l’unica vera outsider di un concorso altrimenti presidiato da nuove e vecchie glorie, più o meno fossilizzate. La giuria capitanata da Jane Campion – che nel film avrà ritrovato frammenti del suo cinema: figure femminili ribelli, la potenza dell’elemento naturale – apprezza e le consegna il Grand Prix. Ma al di là dei premi, la cui importanza va sempre relativizzata, le circostanze confermano Rohrwacher come uno dei talenti più cristallini del nuovo cinema italiano: Le meraviglie è un’opera emozionante e preziosa, intensa e raffinata, in vibrante equilibrio fra materialismo realista e astrazione poetica.
Il film riprende, estende e (r)affina una serie di istanze già affrontate nel precedente film della regista, Corpo celeste, segnalando da un lato la sua coerenza autoriale (sia tematica che stilistica) e dall’altro un deciso sviluppo qualitativo in termini di finezza narrativa e densità espressiva.Ancora una volta la storia ruota attorno ad una giovane protagonista – Gelsomina – sospesa fra infanzia e adolescenza, un’età sfuggente e indecifrabile, silenziosa e impalpabile, difficilmente frequentabile in immagini. Eppure Rohrwacher trova una chiave sottile per dare vita al suo personaggio – non più bambina ma neppure già ragazza – catturandone i piccoli moti interiori che rivelano una sensibilità che si va acuendo e una personalità che pian piano prende forma. La maturazione emotiva di Gelsomina e la presa di coscienza degli zoppicanti equilibri emotivi su cui poggia il mondo che la circonda passa necessariamente attraverso i meccanismi della ribellione e, in particolare, del confronto con la famiglia. E infatti Le meraviglie è soprattutto un film sulla famiglia – la famiglia come organismo generatore e mutilante, come mostro crudele e caldo rifugio; la famiglia come luogo dell’errore, ognuna con il suo scheletro nell’armadio; la famiglia come incomprensione dei sentimenti, entità assurda come assurdo è il cammello che il padre acquista e fa stazionare in giardino.
A esacerbare il conflitto fra il padre – apicoltore iracondo ma non per questo privo di sentimenti – e il resto della famiglia (Gelsomina e le sorelle, la zia loro complice, la moglie vagamente impotente, il misterioso ragazzino tedesco) troviamo la campagna rigogliosa in cui i protagonisti vivono immersi, un far west rurale che li isola materialmente e spiritualmente dal resto del mondo. È in questo non-luogo che il padre cerca di imprigionare le figlie per legarle alla tradizione artigiana da lui imposta (la produzione del miele), ma anche per preservarne la purezza e l’innocenza lontano dalle insidie del mondo esterno – per averle sempre bambine.
Oltre a regalare le scene visivamente più efficaci del film (la cultura delle api e del miele), è proprio nella rappresentazione del paesaggio, degli spazi della casa diroccata e delle attività che vi si svolgono che la regista compie il piccolo miracolo del film: un continuo oscillare fra materia e astrazione, realismo e magia, particolare e universale, in un gesto registico consapevole e affascinante.La minaccia tanto temuta dal padre si materializza dunque nelle sembianze di un programma televisivo girato nel territorio (un truce contest a premi per produttori locali), che accederà i desideri di Gelsomina e istigherà la sua piccola ribellione – che poi non è altro che la ricerca di una piccola felicità, la rivendicazione di un desiderio, un segnale di maturazione. L’artificiosità del set televisivo in contrasto con la natura circostante e la presenza fatata di Milly Catena-Monica Bellucci, conduttrice eterea del programma, contribuiscono ulteriormente allo scarto fra realismo e magia. Il discorso sul potere che i media esercitano sulla società, e sui giovani in particolare, non è nuovo alla Rohrwacher, che già l’aveva investigato – in maniera forse un po’ manichea – nel precedente Corpo celeste. A riprova del progressivo raffinamento narrativo dell’autrice, il tema viene trattato qui in maniera decisamente più complessa e sfumata. Se da una parte la superficialità e quasi lo squallore dell’apparato mediatico vengono messi chiaramente in mostra, dall’altro lato il film non si fa prendere la mano da facili critiche qualunquiste. Le meraviglie, piuttosto, analizza con intelligenza le circostanze per cui anche un mezzo come quello televisivo, che la regista vede fondamentalmente come forza corrompente, può infine assumere una connotazione positiva e diventare uno strumento di emancipazione nelle mani di protagonista che rivendica il proprio diritto al sogno, alla felicità individuale, all’indipendenza.
Chiuso da un finale bellissimo e enigmatico, Le meraviglie è un film che riempie gli occhi e tocca il cuore.
Dopo Corpo Celeste, sempre incentrato sulla lotta con/per l’ambiente di una tredicenne, la sorella minore di Alba vince il Gran Premio a Cannes con un’opera lodevole più per intenzioni che risultati. Si sofferma a lungo sull’arte del mestiere (in modo autobiografico, per l’apicoltura del padre tedesco), segnala una realtà perduta di conduzione familiare delle attività agricole e, senza veemenza, lo scontro con le “messe a norma” istituzionali che mirano a cancellare chi non si adegua, e con la logica televisiva che tutto fagocita riducendo a sketch-kitsch. Cerca una messinscena “magica” senza trattare di magia, come un Fellini sobrio che, ogni tanto, infila un cammello, un set televisivo con personaggi vestiti in modo pittoresco, anime che ballano in una grotta etrusca come ombre cinesi, una realtà poliglotta. Una ‘fiaba materica’ l’ha definita la regista, un film ‘fatto a mano’, comprese recitazioni approssimative (Sam Louwyck sciorina tre lingue ma biascica l’italiano, vanificando la rabbia che dovrebbe esprimere) o figure sbiadite (Alba Rohrwacher). Le emozioni, poi, non hanno tempo di decantare nell’infelice stilema di montaggio per cui la scena si interrompe, la suggestione appena ritratta non fa parte della scena successiva e/ma viene richiamata più avanti, non si sa bene a quale titolo (esempio: quando la maggiore proibisce alla minore di ballare “T’appartengo” di Ambra Angiolini). Si creano voragini nei tratti psicologici, incoerenze come quella di una protagonista direttiva ed insopportabile con cui la regia, poi, invita a sognare un altro mondo con Monica Bellucci e il suo baraccone. I temi toccati sono tanti, è preponderante quello del rapporto privilegiato padre/figlia che si incrina per obiettivi diversi; sono tante anche le “intenzioni” di scene emblematiche e da tuffo al cuore (i momenti con il muto ragazzino tedesco) che non riescono ad essere tali per inadeguatezza espressiva o di organizzazione del testo, a meno che non sia voluta (e opinabile) quest’aria fra l’improvvisato e il dispersivo. Si è girato in un casale fra Umbria e Lazio vicino al lago Bolsena.