Biografico, Drammatico, Sala, Sportivo

LE MANS ’66

TRAMA

Carroll Shelby è il pilota che nel ’59 ha vinto la 24 ore di Le Mans, la più ardua delle gare automobilistiche. Quando scopre di non poter più correre per una grave patologia cardiaca si dedica a progettare e vendere automobili. Con lui c’è il suo fedele amico e collaudatore Ken Miles, dotato di uno spiccato talento per la guida, ma anche di un carattere complicato. Insieme accetteranno la sfida targata Ford di sconfiggere la Ferrari e si batteranno per vincere una nuova 24 ore di Le Mans, contro tutti, a bordo di un nuovo veicolo messo a punto da loro stessi.

RECENSIONI

Avvertenza: la recensione rivela importanti sviluppi del racconto. Se non si conoscono i dettagli della vicenda è consigliata la lettura solo dopo aver visto il film. 

Al di là dell'ingenuo e francamente comico patriottismo che sembra celarsi sotto la scelta di tradurre il titolo originale Ford v Ferrari (uno scontro a due dove Ferrari perde? In Italia? Non sia mai!) nel più neutro Le Mans '66 - La grande sfida, va detto che forse, per una volta, la libera interpretazione italiana finisce inconsapevolmente per essere ben più centrata e corretta del suo corrispettivo americano. Nella sua vaghezza infatti, la grande sfida del titolo nostrano riesce ad alludere non solo alla celebre guerra tra scuderie che a metà degli anni '60 infiammò gli appassionati di tutto il mondo, ma anche a tutta un'altra serie di sfide alle quali James Mangold dedica una parte ben più consistente del racconto e che finiscono per mettere decisamente in secondo piano la spietata battaglia tra costruttori. È allora una sfida quella in cui si imbatterà Carroll Shelby, campione a Le Mans nel '59, costretto ad abbandonare la carriera agonistica a causa di un problema cardiaco e a reinventarsi imprenditore fondando la Shelby Americans. È una sfida quella di Ken Miles, pilota fuori dagli schemi rimasto senza un soldo, che si ritrova a dover fare i conti con la fine dei propri sogni di gloria per sostenere la famiglia, salvo poi accogliere la chiamata di Shelby e decidersi a riaccendere la miccia. Ed è ancora una sfida quella di Shelby contro i dirigenti della Ford, lui convinto della necessità di far correre Miles per poter vincere la gara, loro timorosi che una figura così imprevedibile possa danneggiare l'immagine che contraddistingue da sempre il marchio per cui lavorano.

Insomma, la vera grande sfida del racconto, le cui tensioni esplodono proprio durante la celebre edizione del 1966 della 24 ore di Le Mans, non ha nulla a che vedere con quella suggerita dal titolo americano. Lungi dal mettere in scena con intento meramente celebrativo l'ennesima storia di un grande trionfo americano (come in effetti la vicenda lascerebbe presagire), Mangold ha l'accortezza di spostare lentamente, ma inesorabilmente, il centro del racconto, finendo per non risparmiare nessuna delle due parti in gioco. Se infatti ad Enzo Ferrari sono attribuiti fin da subito caratteri velatamente parodistici, Henry Ford II è una figura che non ha neppure un briciolo della serietà e del portamento normalmente attribuiti ad un condottiero in grado di compiere un'impresa grandiosa come è stata la sua vittoria sul colosso italiano (il lungo e infantile pianto in cui si scioglie dopo aver provato da passeggero la nuova macchina da corsa è, in questo senso, rivelatore). Perché la storia non la fanno i dirigenti in giacca e cravatta, ma gli unsang heroes come Ken Miles, capaci di pensare e di agire con un coraggio e una determinazione eccezionali.
Interpretato da un Christian Bale che ripesca a piene mani da tutto l'armamentario di The Fighter, quella del pilota inglese è una figura animata dallo stesso impeto che infiammava il Johnny Cash di Walk The Line. Lì l'amore travolgente per una donna, qui la sete di vittoria. Lì un (a tratti patetico) percorso di riabilitazione per tornare a rigare dritto e ad inserirsi entro i confini più sicuri stabiliti dalla società (leggasi matrimonio), qui un'orgogliosa rivendicazione del genio incapace di stare dentro tali confini, un vincente costretto alla sconfitta da una società i cui obiettivi non coincidono mai con le aspirazioni dell'individuo.

Sfide, duelli e antieroi solitari, dunque; come in Cop Land, come in Walk The Line, come in Quel Treno per Yuma, come in Logan. Nonostante i sentimenti che contraddistinguono da sempre il film sportivo siano ripresi con una precisione rigorosa (ma mai stucchevole), anche Le Mans '66 è un film che sembra rivendicare orgogliosamente le proprie radici western, vero e proprio leitmotiv di una carriera così varia e diversificata come quella di Mangold (anche in questa suggestione, nel suo implicito rifarsi alle tante sfide infernali di cui è composta la storia italiana del western americano, la traduzione del titolo appare decisamente puntuale). A ben guardare infatti, l'operazione non è troppo dissimile da quella del film dedicato al più iconico degli X-Men: se però in Logan l'immaginario western serviva quasi a mascherare la naturale struttura del cinecomic amplificando, attraverso l'adesione al genere, l'andamento e il significato funebre del racconto, qui il western non prevarica mai le caratteristiche tipiche del dramma sportivo. È semmai un fantasma, un luogo in cui resistono solo frammenti di immaginario (i cappelli di Miles e Shelby) e che funge da cassa di risonanza della malinconia tipica del cowboy solitario incapace di piegarsi alle maglie della società e mai in grado di realizzare pienamente i propri sogni.

Certo, alla fine della fiera Le Mans '66 - La grande sfida sembra reiterare per l'ennesima volta quell'ormai stanco disincanto nei confronti di un (ir)raggiungibile american dream, un sogno che sembra sempre lì a due passi, eppure continua a sfuggire, anche quando si è stati in grado di realizzare il giro perfetto. Banale, già visto e già detto in molte altre forme? Sicuramente. Va però riconosciuta a Mangold una capacità di messa in scena degna di un grande racconto hollywoodiano, in grado di esprimersi al meglio sia attraverso sorprendenti sequenze spettacolari (le corse automobilistiche sono forse tra le più genuinamente entusiasmanti viste negli ultimi anni) sia nei momenti più intimi e delicati (la morte di Miles in un campo lungo che evoca ancora l'immaginario western, e poi il controcampo sullo sguardo del figlio e il dettaglio del cappello ad esprimere l'assenza: chapeau). Un film orgogliosamente fuori tempo (massimo) insomma, nel bene e nel male. Forse incapace di riflettere e veicolare urgenze prettamente contemporanee eppure, proprio per questo, in grado di ambire ad un'atemporalità che è prerogativa dei grandi classici. Il fatto che, per una volta, non siano ambizioni totalmente campate in aria (vedi alla voce Motherless Brooklyn) non è cosa da poco.