Drammatico, Focus, MUBI, Recensione

LE LUCI DELLA SERA

Titolo OriginaleLaitakaupungin valot
NazioneFinlandia
Anno Produzione2006
Durata80'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Disavventure del silenzioso e solitario guardiano notturno Koistinen, che sogna di mettersi in proprio e s’innamora d’una femme fatale.

RECENSIONI

Torna a farsi cupa, la poetica stralunata e inattuale di Kaurismäki. Gli inopinati squarci di luce dei precedenti Nuvole in Viaggio e L'Uomo senza Passato sono spenti; l'ironia impassibile e ghiaccia – il neorealismo umoristico che estasia e commuove il suo pubblico – fa capolino di rado ("Come te la passavi in prigione?" - "Non potevo uscire"), mentre tiene il campo un metronomico susseguirsi di sventure, a cui il protagonista corre incontro con l'ottusa fiducia (per ottenere un prestito pretenderebbe di far da garante a se stesso) e la testarda integrità (il rifiuto di tradire l'amata) tipiche degli antieroi cari al regista finlandese. Per il resto, c'è tutta la grande maniera di Kaurismäki in questo film (Luci ai Margini della Città, suona il bel titolo originale) di frigida bellezza, insieme alle sue costanti tematiche: da un lato la scarsa mobilità della m.d.p. su dialoghi essenziali e fulminei, la recitazione straniata, il dominio del non detto (la contemplazione di Mirja) e del fuori campo (la gag del pestaggio); dall'altro la banca come luogo esemplare e simbolico della ferocia capitalistica, la passione per il rock, le foglie morte svolazzanti sul terreno, il décor d'altri tempi proprio di emarginati e loser contrapposto alla luccicante e cafona eleganza del crimine – che sembra aver contagiato lo stesso profilo urbano di Helsinki, mai così artificiale e disumano nello sguardo del regista – e all'anonima asprezza d'una comunità (gli avventori del bar, la guardia giurata della banca) che s'è fatta anche più torpida e cieca di fronte al singolo. Il superiore non ricorda il nome dell'uomo che ogni notte da anni firma il registro presenze, Mirja passa l'aspirapolvere mentre il suo uomo gioca a carte coi compari: tocchi tragicamente divertenti. Il regista forse più antiborghese – per etica ed estetica – del nostro tempo, che ha eletto a propria musa la sottrazione, proprio grazie a essa dona intensità a momenti (l'amore per Mirja, la gioia fugace dell'ora d'aria) che chiunque altro trascinerebbe nel ridicolo o nel retorico; la colta cinefilia non muta in furbo ammicco o ghirigoro citazionista, ma adotta la cifra di volta in volta più appropriata: ad esempio, le sequenze del furto e della preparazione dell'arma si ispirano alla rapidità abbacinante e quasi iperrealistica (il gesto, l'oggetto) del Bresson di L'Argent, mentre l'assoluta fissità dell'inquadratura (in campo medio o a figura intera) nei momenti in cui personaggi sono persi nella loro emozione (la “cena”, la solitudine di Aila) è debitrice all'arte dell'amato Ozu. Mancano invece, come s'è detto, le repentine e casuali svolte narrative che nei film del recente passato aprivano spiragli d'una possibile felicità all'interno del costante grigiore della vita. La solidarietà degli outsider (che alimentava d'un soffio chapliniano e fordiano insieme i film citati in apertura) s'è fatta ostilità beffarda (i colleghi di Koistinen); l'eroe scende fino al fondo del fondo dell'umiliazione, e non c'è nessun deus ex machina a risollevane la dignità offesa dal caso e dagli umani. L'autore sembra tornato ai suoi esordi e ai freddi bagliori de La Fiammiferaia: il carattere di un uomo è il suo destino. Resteranno solo un ragazzetto solitario e una donna paziente e spigolosa, ad accompagnare con uno sguardo e un tocco l'ultimo viaggio del protagonista. In quello sguardo e in quel tocco, e nell'inutile e folle forza d'animo di Koistinen, sta tutto l'umanesimo disperato di Kaurismäki; una “disperazione calma, senza sgomento”, per citare un poeta che crediamo non spiacerebbe al grande finnico. Coincidenze: nel 2006 Le Luci della Sera era in concorso a Cannes; fra i suoi concorrenti, Volver. Ebbene, il nostalgico canto di Gardel che apre il film è quello stesso che dà il titolo al film di Almodóvar e che vi viene intonato (nella finzione scenica) da Penélope Cruz.

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E tre. La trilogia dei perdenti si chiude con il ritratto rassegnato e teneramente malinconico di Koistinen (Janne Hyytiäinen), loser definitivo e protagonista de Le Luci della sera. Presentato in concorso a Cannes, l’ultimo film di Aki Kaurismäki racconta la triste vicenda di un vigilante notturno incastrato da una donna della mala che lo seduce per derubare una gioielleria. È la storia di una progressiva, ineluttabile emarginazione, di un’inesorabile privazione di libertà, di un vero e proprio imprigionamento. Pur non aggiungendo granché alla riflessione articolata nei film precedenti (si ravvisa anzi un’ombra di logorio nell’elaborazione tematica), Le Luci della sera si segnala per due rimarchevoli aspetti stilistici. Il primo è in netto contrasto con L’uomo senza passato: se il penultimo film del cineasta finlandese presentava un’insolita pienezza visiva (cromatismi squillanti, ricchezza delle inquadrature, una certa sfarzosità dei movimenti di macchina), questo segna invece un deciso ritorno all’aspra sottrazione di Delitto e castigo e de La fiammiferaia: i colori si illividiscono in un tono bluastro dalle sfumature plumbee, le inquadrature si svuotano drasticamente, i movimenti di macchia si diradano sensibilmente. In una parola, rispetto a L’uomo senza passato, lo stile si scarnifica. Il modello è ovviamente Bresson e gli omaggi al maestro si moltiplicano: l’insistenza ossessiva sulla fisicità del denaro (il tintinnio delle monete, il fruscio delle banconote: il rumore dei soldi) proviene da L’argent, la sequenza carceraria rievoca Un condannato a morte è fuggito e nel finale fa addirittura capolino Pickpocket. Ma è più in generale che il cosiddetto “rigore bressoniano” informa il film: la macchina da presa anticipa le entrate in campo degli attori e permane sul campo vuoto dopo la loro uscita, i dialoghi sono girati – e raggelati – in primi piani di una frontalità quasi statuaria e i particolari (tre bicchieri di birra lasciati su un tavolo, i piedi di Koistinen che salgono su un bus) rimpiazzano l’intera scena, rappresentandola metonimicamente. Stilemi bressoniani magistralmente controllati e perfettamente integrati in un tessuto filmico che li accoglie con sconcertante naturalezza. Il secondo aspetto, profondamente legato al primo, ha invece a che fare con la messa a punto di una forma cinematografica in grado di significare la privazione di libertà a cui è sottoposto il protagonista: privazione che riguarda metaforicamente ogni individuo e che, più metaforicamente ancora, interessa anche il cinema (c’è bisogno di ricordare con Godard che "tutte le immagini nascono uguali e libere: i film non sono che la storia della loro oppressione"?). Ebbene, la forma-cinema concepita da Kaurismäki è l’inquadratura-prigione. L’intuizione è stupefacente: trasformare il quadro in una cella soffocante, in una cornice rigida e opprimente, in un carcere visivo. Gli elementi architettonici inquadrati rafforzano questa impressione, intensificando il senso di chiusura, di segregazione, di oppressione. Le figure geometriche incluse nella composizione disegnano spazi circoscritti, aree visive fortemente definite, zone di separazione. Delimitazioni. L’inquadratura è assimilata alla prigione, insomma, e il film ribadisce il concetto con grande perentorietà: la condanna di Koistinen ad un anno di reclusione è sancita visivamente da un’inquadratura strettissima sui suoi occhi, vera e propria sentenza cinematografica; la sola differenza tra la vita in carcere e quella da liberi è che “lì non potevi uscire, le porte erano chiuse” e persino la stretta di mano finale somiglia più a un ammanettamento che a un gesto totalmente catartico. Eppure rimanere in campo, in questa prigione opprimente causa di perenne magone e umiliazione, è anche motivo di vita. Stare nel quadro equivale a non morire, pur malconci e sanguinanti, e avere un’altra occasione per sentire, nonostante il freddo metallico di queste sbarre, il calore inaspettato di una mano amica: “Non andartene, resta qui”.