Commedia, Drammatico, Recensione

LE INVASIONI BARBARICHE

Titolo OriginaleLes Invasions Barbares
NazioneCanada/Francia
Anno Produzione2002
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Malato terminale, Rémy vuole accanto a sé tutti gli amici e deve ricucire il rapporto con il figlio.

RECENSIONI

Sul lago dorato, il pranzo domenicale de Il Declino dell’Impero Americano si rammarica dell’impossibilità di Rémy di assaggiare ancora i sapori della vita. I sagaci aneddoti a sfondo sessuale, politico, sociologico e filosofico perdono valore all’ombra di una morte che muta il cinismo e il feroce sarcasmo in mestizia. L’Impero Romano, colpito al cuore dall’attentato dell’11 settembre, è invitato ancora una volta a riscoprire gli affetti sinceri, a relativizzare i propri credo e assunti, a smettere il perbenismo di facciata e le proprie ipocrite sante crociate. La verità ha sempre due (e più) facce: l’assenza di un padre innamorato della vita (delle donne) rivela la propria forte presenza (il commovente videomessaggio della velista); il capitalismo compra i limiti delle questioni di principio (del mafioso sindacato e del proibizionismo) e dell’egoismo umano (gli studenti pagati per far visita al loro professore!); gli ideali si svuotano dinanzi alle loro vittime (Godard e il suo nefasto La Cinese); la presunzione della perfezione (il re dei barbari, figlio della new economy, giudica il padre) crolla di fronte al fascino dell’imperfezione (la tossica); gli e(o)rrori della Chiesa non negano l’importanza del suo messaggio, tanto meglio se ha favorito solo la masturbazione (con la Santa del Cielo sulla Palude)! Se poi l’umanità s’è sempre macchiata di crimini abominevoli, acquista ancora più senso il Perdono di Dio. L’antinomia è il sale di una vita che non ha contraddizioni. Non esiste la verità assoluta ma quella in punto di morte: ciò che chiamiamo paradosso è solo la verità osservata attraverso lenti che non hanno il coraggio di guardarla in faccia. Arcand si serve dei personaggi e della particolare situazione per disquisire su tutti i campi del sapere umano: la sua civiltà (vs. la Barbarie) si misura sulla larghezza di vedute, senza falsi moralismi e partiti presi. L’addio alla vita è dolce fra le braccia dei cari, in un rito funebre che rifiuta l’assenza d’intelligenza collettiva nel mondo e fa le cose com’è piacevole che siano.

Dopo avere affrontato "il declino dell'impero americano", il gruppetto di universitari e' cresciuto e si ritrova al capezzale dell'amico morente per constatare l'avanzata dei "barbari": coloro che, indipendentemente dal paese di appartenenza ma seguendo una "way of life" tutta occidentale improntata al capitalismo, hanno perso di vista la qualita' della vita, omologandosi ad uno stile tecnologico, individualista e competitivo, fondato su un'efficienza di facciata, tanta apparenza e molti consumi. La materia, quanto mai attuale, e' scottante e a grande rischio di retorica, ma il brillante Denys Arcand riesce a tessere una sceneggiatura perfettamente equilibrata, in cui la tesi da esporre e' dietro l'angolo senza, per fortuna, prendere mai il sopravvento. I personaggi hanno infatti idee chiare circa i principi a cui aderire, ma non sono monolitici nelle loro scelte e ironizzano con leggerezza sugli "ismi" che hanno scandito il loro cammino di crescita personale. Anche la malinconia con cui si intrecciano i ricordi non scade mai in uno sterile piangersi addosso. E' proprio la loro contradditorieta' ad evidenziarne il lato umano e a permettere un'immediata empatia. In fondo sono i soldi del "barbaro" figlio Sébastien che consentono al padre Remy di morire nel modo piu' sereno possibile, riducendo al minimo il dolore. Il film, grazie al cielo, nonostante una certa semplificazione nella problematicita' degli sviluppi (forse non e' cosi' facile occupare l'intero piano di un ospedale o trovare un poliziotto cosi' comprensivo) non propone facili soluzioni, ma offre molteplici spunti di riflessione: i vari temi sfiorati non vengono sempre sviscerati, ma rispecchiano con efficacia le dinamiche dei protagonisti e il contesto sociale in cui si muovono. L'unica lezione impartita dal regista supera i confini di ideologie, dogmi e postulati per raggiungere le corde dell'emozione tout-court. Ed e' una lezione di buon cinema (il film e' piacevole, scorre in fluidita' e c'e' caso che al riaccendersi delle luci lo spettatore si accorga di non avere cambiato posizione) e, perche' no, di vita. In genere un tema difficile come la morte viene censurato o fronteggiato con toni grevi, inclini a virate patetiche o inutili melensaggini. Arcand, invece, sceglie prima di tutto di parlarne e, anzi, di renderla protagonista trasversale del suo lungometraggio, poi la mostra con estrema naturalezza: un passaggio obbligato e doloroso, reso meno insopportabile dal calore di amici e familiari e dalla lucidita' con cui vengono prese decisioni non facili (l'utilizzo della droga a scopo terapeutico e l'eutanasia). Grande plauso all'intero cast, in particolare Stephane Rousseau (sara' un caso la sua somiglianza con il nostro presidente del consiglio?) e l'incantevole Marie-Josée Croze, premiata a Cannes per la sua interpretazione, cui basta uno sguardo per riempire lo schermo.