TRAMA
Asuncion, Paraguay. Chela e Chiquita convivono da 30 anni ed entrambe discendono da famiglie facoltose. Recentemente però la loro situazione economica è cambiata e si trovano costrette a vendere un po’ alla volta i beni che avevano ereditato. Quando il loro indebitamento diventa tale da spingere Chiquita alla frode con conseguente arresto, Chela deve prendere atto della nuova realtà tornando a guidare la vecchia auto per trasportare anziane signore dell’alta società.
RECENSIONI
Uscire dall’ombra. È quello che quasi senza accorgersene, poi sempre più consapevolmente, fa Chela, sessantenne della buona borghesia di Asunción, rampolla di una famiglia un tempo agiata della quale sono sopravvissuti solo gli averi: una vecchia magione in decadenza stipata di servizi di piatti, porcellane, cristalli, mobili di ottima fattura, argenteria polverosa, quadri e specchi dalle cornici importanti, adesso messi in vendita per un bisogno sempre più pressante di denaro. Uscire dall’ombra di Chiquita, compagna di una vita, metà di una relazione che si è inaridita nella consuetudine e nella rigida ripartizione dei ruoli (Chiquita pragmatica, mascolina ed estroversa, probabile causa del tracollo economico della coppia per via di debiti contratti fino all’accusa di frode fiscale; Chela la compagna da accudire e proteggere, signora fragile ed elegante di un’eleganza fané, artista autoreclusa, creatura depressa e diffidente). Uscire, anche, dall’ombra di una classe sociale che, trincerata nei suoi privilegi e nelle sue pulsioni autoritarie, resasi con la sua ignavia complice della dittatura che ha paralizzato un intero paese per più di sessant’anni, ha soffocato sul nascere qualsiasi timido tentativo di autodeterminazione della donna.
Non è immediata la dimensione politica di Le ereditiere, esordio nel lungometraggio di Marcelo Martinessi, ed è un bene. Un po’ perché del Paraguay, nazione praticamente invisibile al resto del mondo finché ne è stato presidente il generale Alfredo Stroessner, il pubblico di oggi sa poco e nulla, un po’ perché Martinessi non calca la mano sulla lettura metaforica, anzi lavora di sottrazione e allusioni sotterranee. Character study che cela, dunque, il ritratto obliquo di un Paese, Le ereditiere punta i suoi riflettori su un mondo esclusivamente femminile, lesbico come la coppia protagonista, o etero come le anziane giocatrici di bridge che assumono Chela come autista privata. Mondo isolato, segregato in una routine soffocante (il vassoio per la colazione meticolosamente assemblato), che obbedisce alla rigida gerarchia classista imposta da anni di conservatorismo feroce e patriarcale (gli sguardi eloquenti rivolti alla nuova impreparata domestica). Gli uomini sono presenze marginali, comparse sullo sfondo, figure solo evocate, spesso mariti o compagni inaffidabili e fedifraghi. Chela assiste alla spoliazione della sua casa con un misto di rifiuto e sgomento. La perdita degli agi e di una guida come Chiqui, costretta ad andare in prigione, la mettono alle strette in uno spazio nuovo, vuoto, da colmare ricostruendo la propria identità appassita. E come sempre è il desiderio, che prende corpo nell’affascinante quarantenne Angy, a farsi agente di liberazione. In Angy, personaggio-funzione, catalizzatore del cambiamento, unica donna a parlare di sé e delle proprie esperienze mentre le altre girano a vuoto nel loop del pettegolezzo, Chela non vede tanto una (im)possibile nuova amante quanto il riflesso ipotetico di un’altra sé, più combattiva, più consapevole del proprio corpo: Chela non vuole Angy, vuole essere Angy (gli occhiali, la sigaretta: feticci di un’immedesimazione).
Dall’ombra Chela prova timidamente a uscire già nella prima inquadratura del film. L’occhio spia le nuove acquirenti, benestanti signore che ispezionano annoiate gli oggetti messi in bella mostra sul tavolo del salone. L’inquadratura è uno spiraglio protettivo ma anche una frattura nel campo visivo, al tempo stesso una chiusura e un’apertura. Lo sguardo, nel proseguire del racconto, sarà sempre ristretto, parziale, costretto in luoghi chiusi (le stanze della casa, gli spazi caotici della prigione, la lussuosa anticamera dell’abitazione dove Chela attende le attempate giocatrici, l’abitacolo dell’auto). Il Paraguay neanche si vede, nessun campo lungo a svelarne il paesaggio, ampio ricorso invece al fuori fuoco per annullare la profondità di campo. Il tono sobrio e laconico di Martinessi innerva una struttura narrativa scarna forse un po’ risaputa e dagli sviluppi prevedibili (la mente non può non andare a un analogo titolo latinoamericano recente, Gloria di Sebastian Lélio, ritratto di donna non giovanissima che cerca di emanciparsi dalla Storia del proprio paese e dalla propria storia), illuminata però dall’intensità trattenuta dell’interpretazione di Ana Brun. Nel prefinale Chela sale in terrazza, allarga lo sguardo al cielo notturno, molla i freni della sua emotività abbracciando la domestica. La Mercedes, relitto di un’agiatezza perduta, diventa veicolo d’emancipazione. A volte uscire dall’ombra non significa riguadagnare la centralità del quadro, a volte uscire dall’ombra comporta, necessariamente, liberare lo sguardo fino a sparire.
Premio Alfred Bauer e Orso d’Argento per la migliore interpretazione femminile alla 68ima Berlinale.
Chela e Chiquita vivono insieme. Stanno insieme. Vivono nella casa di famiglia di Chela e si mantengono vendendo a poco a poco il patrimonio, ora l'argenteria, ora le lampade, ora i quadri del nonno. Ma la loro situazione economica sta peggiorando tanto che anche la loro automobile è ormai in vendita. Vivono sì in una situazione agiata ma sul punto di finire. Chela e Chiquita sono le eredi di un patrimonio che è sia fortuna, sia responsabilità, un patrimonio che non hanno saputo far fruttare ma solo sfruttare ad esaurimento, fino ad estinguerlo. A sottolinearlo è un simbolismo tangibile di oggetti che sono solo lo spettro di quello che erano una volta, oggetti che le ereditiere per accidia non hanno saputo mantenere vivi, come il vecchio pianoforte ormai scordato lasciato a prender polvere nel soggiorno della dimora.
La rottura dell'equilibrio è proprio l'incarceramento per truffa di Chiquita, nonostante lei sostenga "sia soltanto un debito". Un cambiamento che si ripercuote non solo su Chiquita, ovviamente, ma anche su Chela, costretta ad aprire le porte della sua dimora e a confrontarsi col mondo esterno. Esattamente come Chiquita abbandona la comoda prigionia autoimposta della sua casa per entrare in una prigione fisica a tutti gli effetti, Chela si trova ad affrontare lo stesso percorso su un piano morale, a misurarsi con un'immobilità sociale di cui lei stessa è parte.
Nello scontrarsi con la realtà a cui si era sottratta, al cambiamento politico a cui non aveva prestato testimonianza, Chela comincia una doppia vita, padrona a casa sua ma serva nel mondo esterno. Un cambio nel suo stile di vita che la costringe ad adeguarsi alla situazione in cui viene catapultata, in un mondo in cui fa il suo debutto tardi e con cui fatica a stare al passo. Il suo adattamento però rappresenta progressivamente la rottura delle catene che soffocano una società intera. Da un lato “Poupeé” - come la soprannominavano da piccola in famiglia e come continua a farsi chiamare, mai cresciuta dal suo stato di bambola - continua a dipingere per vezzo in casa ascoltando musica classica e avvalendosi della servitù, dall'altro mette l'automobile e i suoi servigi da autista a disposizione della vicina di casa. Se in un primo momento Chela tenta di rifiutare i soldi che le vengono offerti per il servizio reso, finisce poi per cedere non solo alla vicina ma anche alle amiche, "proprio come un taxi". Quello che all'inizio era solo un evento occasionale, diventa progressivamente sempre più un impegno ricorrente, fisso, un lavoro. L'automobile, una vecchia Mercedes, assume così il doppio valore di oggetto in vendita ma allo stesso tempo mezzo di lavoro, l'unico mezzo che Chela riesce in qualche modo a far fruttare, un mezzo simbolo anche del movimento a cui Chela, nonostante non abbia la patente, deve abituarsi.
Per Marcelo Martinessi, regista paraguaiano alla sua opera prima, era questa la giusta intimità per affrontare l'immobilità politica del suo Paese che si sta lentamente sgretolando. "Nel nostro Paese abbiamo usi e costumi che ci fanno sentire come se fossimo in una grande prigione e credo che fosse importante per la mia generazione cambiare le cose" ha detto il regista alla conferenza stampa della 68ª Berlinale dove il film è stato presentato in concorso, aggiungendo che "per me era chiaro che la mia generazione avrebbe contribuito alla formazione di una nuova società e il cambio di modello nel 2012 ne è la prova."
La casa per Martinessi è uno specchio del suo Paese, un grande carcere con più libertà, come delineano adeguatamente la fotografia scura e i primi piani con sfondo sfocato che sottolineano l'oscurità indefinita da cui devono emergere i personaggi, e il mondo femminile creato dal regista è il risultato della volontà di far trasparire la situazione del Paraguay attraverso il Cinema, una voce libera nella cinematografia di un Paese che è sempre stata di regime, scritta dal regime.
"Nonostante la storia del Paese sia dominata da uomini, da grandi padroni, il tessuto interno del Paese in realtà è fatto di donne ed era importante ai fini della mia storia far vedere quel mondo in cui le donne sono viste come oggetti ma in cui gli uomini sono marginali, secondari. È un film che parla del futuro, di come sarà se avremo successo in questo processo di cambiamento" e la presenza stessa del film alla Berlinale è una testimonianza del cambiamento che sta avvenendo in Paraguay.