Drammatico, Recensione, Storico

LE CROCIATE

TRAMA

Francia 1187. Dopo il suicidio della moglie il maniscalco Balian riceve la visita di Goffredo di Ibelin, che gli svela di essere suo padre, convincendolo a partire alla volta di Gerusalemme. Balian giunge in Terra Santa nell’intervallo tra la seconda e la terza crociata; qui regna il cristiano Baldovino IV, deformato dalla lebbra, che si impegna a mantenere una fragile pace con gli arabi del Saladino. Ma il sovrano ha i giorni contati e la successione sarà particolarmente bellicosa

RECENSIONI

Il cinema è onnipotente: Ridley Scott, ieri menestrello della sporcizia bellica (SOLDATO JANE, BLACK HAWK DOWN), aderisce oggi al 'genere' pacifista. Virgolette quasi inessenziali, dato che la chimera del disarmo può ormai considerarsi un filone internazionale (da CANTANDO DIETRO I PARAVENTI ad HERO), ognuno sintonizzato sulla propria latitudine ed applicato al personale conflitto. Qui si raccoglie un Medioevo torvo e desolato, pienamente calato nella superstizione (la decapitazione dei suicidi), nel tentativo di ritagliare un universo sottovetro cui abbandonarsi per scoprirne le losche peculiarità, la truce convenzione, gocce di sangue e granelli di rosario. LE CROCIATE offre una messinscena perfetta: dal primo paesaggio imbiancato al quadro conclusivo, passando per le spettacolari scene di massa nei dintorni del peplum. Scott, con solido mestiere, impugna la cinepresa e la conduce dove vuole, esplora ogni pertugio ed azzarda l'angolatura ardita; culminando questo 'blockbuster d'autore' (per sua stessa definizione) in un messaggio solare ed accorato, il regista rischia molto ma non abbastanza. Impresa titanica restituire i molteplici bagliori di un'epoca misteriosa e sfuggente; lo si poteva fare mantenendo rigore nella narrazione, evitando il manicheismo tramico che costringe ogni introspezione nella rispettiva gabbia (buoni - cattivi), risparmiando il facile richiamo (il gioco della Green con la candela, cfr. THE DREAMERS), disdegnando la greve didascalia (il finale, un tonfo di stile). Invece no: l'intreccio segue diligentemente tappe abusate (viaggio, peripezie, amore, guerra), si narcotizza tra le braccia del divo nascente (Bloom è puro soprammobile), acchiappa al volo il tram del ridicolo (così il saggio signore di Ibelin: Ho combattuto per due giorni con una freccia nel testicolo destro). Alle soglie del suicidio perfetto il ludico Scott si riscatta nel singolo episodio, la virata grottesca del sovrano lebbroso (per inciso: il crepuscolo di Baldovino - fiero, duro, conturbante - è straordinario, ciò che resterà di questo film), la doppia anima di una donna (Sibilla, un ardore chiamato Eva Green), il cast solo per appassionati (cameo invisibile per Norton/Baldovino, un Neeson paterno, il solito Irons ghiacciato), l'affresco di uno strano mondo costruito per accumulazione. Imponente e diseguale, stimolante solo a tratti, LE CROCIATE è un cantico di pace. Eccoci al cuore del problema: meno coraggioso di quanto sembri, il film siede composto a lezione di uguaglianza e compila il temino (formalmente ottimo, peraltro) contro tutte le guerre. L'abbiamo già sentito questo vecchio messaggio in segreteria, che squarcia il velo dell'operazione, al limite del basso pretesto: e soprattutto, perché un messaggio? Il (grande) cinema ne ha davvero bisogno?

La sceneggiatura di Kingdom Of Heaven è per molti versi ammirevole: con pelosa diplomazia, William Monahan maneggia una patata bollentissima senza scottarsi e senza farsela cadere dalle mani. Non è infatti il momento storico più 'rilassante' per parlare di guerre tra musulmani e cristiani, eppure, questo sceneggiatore esordiente sguscia, si divincola, annaspa, bara ma alla fine fa contenti tutti e tira fuori un pistolotto sulla tolleranza mica male. Il resto è ordinaria, kolossale amministrazione, con tutti i dovuti manicheismi del caso e gli inevitabili scivoloni nei territori della prevedibilità più oltranzista e stucchevole. Stiamo al gioco e andiamo avanti. E Scott che combina? Innesta il pilota automatico e sforna il remake registico del Gladiatore, prendendo forse atto che nel frattempo Peter Jackson ha chiuso la sua trilogia e che L'ultimo Samurai e Troy si sono accodati al filone da lui ri-rilanciato (dopo Braveheart, intendo) alla grande. Qualcuno, però, dovrebbe fargli notare che nelle scene di battaglia non ci si capisce un tubo: il fido Mathieson continua ad usare quei dannati otturatori iper-veloci che, uniti a una camera parkinsoniana e ad un montaggio che la butta sulla confusione, rendono gli osannati combattimenti di massa dei blob informi dove si distinguono solo terriccio e schizzi di sangue. Non stupisce che sia tutto un 'ma quello lì morto era buono o cattivo?' - Del resto non ci si può lamentare: gli innesti da autore bollito di Scott fanno la loro porca figura (la trasfigurazione di Sibilla nel mostruoso fratello, qualche angolo di ripresa 'strano') e i dolly sono tutti al posto giusto. Due paroline finali sugli attori per dire che Orlando Bloom fa un passo avanti rispetto a Troy (nel quale sarebbe stato perfetto come blocco di tufo) ma ci piace ricordarlo con le orecchie a punta, Eva Green è una bella figliola e un'attrice diligente mentre Jeremy Irons e Liam Neeson, che non mi sono mai piaciuti un granché, fanno una marchetta che dubito rimarrà negli annali. Svetta Edward Norton nella parte di Re Baldovino IV, l'unico personaggio realmente affascinante. Il fatto, però, che per tutto il film reciti con una maschera di metallo sul volto dovrebbe farmi trarre delle conclusioni che al momento mi sfuggono.

Chi fu il saggio e colto duce dei musulmani alla fine del XII secolo, meritevole di essere citato con rispetto nella Commedia (“Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino / Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; / e solo, in parte, vidi ’l Saladino” – Inferno, IV Canto) e con ammirazione nel Decamerone, fino a identificarsi con l’immagine stessa del sovrano tollerante e illuminato? Salah ad-Din. Esatto. Come si chiamava il buon re cristiano di Gerusalemme, condannato a prematura morte dalla lebbra? Baldovino IV. Esatto. Qual è, dopo il Bush jr manesco civilizzatore cristiano, il nuovo nume di Ridley Scott, regista tuttofare ed ex geniale visionario (suoi due dei più bei film di fantascienza di sempre)? Lo Zapatero dell’ “alleanza di civiltà”. Errato. Più che un’alleanza il prode e nobile Baliano, eroe della nostra storia, preferisce l’indifferenza: tornato alla terra natia e all’umile mestiere in compagnia di Sibilla, preferisce ammirare la natura e – supponiamo – amoreggiare con la sua bella (bella davvero, essendo l’inutilissimo personaggio interpretato da Eva Green in versione femme fatal nel primo tempo e peccatrice penitente nel secondo, ma inadeguata in entrambi) che rispondere al richiamo della Storia, per potenti che siano i Suoi messi. Tanto da respingere l’invito di Riccardo Cuor di Leone – che con degnazione invero piccoloborghse pronuncia le fatidiche parole “Sono il re d’Inghilterra”, mentre il pensiero birichino dello spettatore corre ai tampax di Camilla – a tornare in Terrasanta per strappare il Sepolcro al turpe Saraceno: che i Grandi se la sbrighino da soli, colui che cercate non è qui, io sono solo il maniscalco. Frase in sé bellissima, ma pronunciata con la lignea inespressività congenita all’attore protagonista; ed è infatti la medesima da lui esibita per tutto il film. Sia chiaro, l’indifferenza non è la peggiore delle risposte da offrire alle chiamate a coorte che i potenti sono soliti rivolgere ai sudditi. Trattasi anzi, onde evitare la svendita di se stesso, dell’unica risposta forse possibile al singolo: la diserzione agli obblighi di leva, di casta, di genere, di famiglia, di classe, di corporazione o d’altra specie. Se i contendenti sono violenti, ipocriti, avidi, esaltati, ribaldi, sottrarsi alla contesa – ai rischi ma anche ai vantaggi che essa offre – non è prova d’ignavia bensì di lungimiranza e nobiltà d’animo. Peccato solo che nella concezione – e nella concertazione – di Scott siffatta prospettiva appaia del tutto casuale. Casuale al punto da essere, chissà, solo l’eccesso d’interpretazione cui testardamente si spinge il commentatore, alla ricerca di una ragione per tanto frastuono. Una volta riempite le caselle del suo cruciverba storico, con tutti i nomi e solo quelli al posto giusto, il regista si lancia infatti nella costruzione di un polpettone più macignoso che possente, che non ha il coraggio di imboccare con decisione la strada della fantastoria già proficuamente – si fa per dire – seguita in Gladiator e Black Hawk down, e oscilla incerto fra la stentata pedagogia e l’ostentata soap opera, con Gerusalemme a far la parte altrove svolta dal mercato della moda o da quello petrolifero, contesi da trucidone con parrucca ossigenata à la Hayworth o da avvizziti cow boy col cappellaccio.
Meno cupo e feroce di Alexander (solo molto movimentato, senza traccia dell’orrore e del puzzo di cadavere che saliva dai campi di battaglia di Stone), condivide con esso la concezione della Storia come romanzo interpretato dagli eroi (con tanti saluti alla necessità di cogliere l’atmosfera, i mores, la spiritualità, l’autentico alito del tempo e altre mene da scuola delle Annales), ma non certo l’idea che l’autore di quel romanzo sia un dèmone beffardo e compulsivo: non c’è traccia di pessimismo in Scott, né di ottimismo, né di alcuna inclinazione particolare rispetto al proprio oggetto (diegetico e metaforico). C’è semplicemente un plot da sviluppare, modesto e non rinvigorito se non da una generica baldanza, e allora avanti: il nobile rivela al plebeo la verità della sua nascita, si parte per l’oriente, i cattivoni congiurano contro il buon sovrano e contro la pace, tra nobiluomini ci si può intendere mentre una canaglia è sempre una canaglia, fioriscono gli invasati, una donna bella e innamorata è lo scrigno della riconquistata serenità. Qua e là, con cadenze strettamente ravvicinate, elementari lezioni di rettitudine e pacifismo. E, ben s’intende, i buoni sono buoni, e i cattivi cattivi, anzi cattivissimi. Nulla di quell’ambiguità che, quasi malgré lui, emergeva dal film di Stone, ove l’ondivaga prospettiva (pochi gradi, ma sufficienti) rivelava dietro il liberatore il tiranno, dietro l’appassionato cultore di civiltà l’oppressore, dietro il sogno di gloria l’ossessione del potere. Se per Stone la Storia è romanzo famigliare e ferrigno groviglio freudiano; se per l’Hirschbiegel de La caduta è cronaca pedante e genericamente umanitaria; per Scott non è più fantasy, e non è certo divenuta mito, ma si è rattrappita a feuilleton di cotta e spada, pomposo e con morale incorporata. Anzi, appiccicata. Morale senza grinze, peraltro: dietro il paravento della fede, noi cristiani scendemmo in Terrasanta a razziare, violentare, convertire con la forza; a conquistarci un regno od un profitto a scapito degli autoctoni. Ergo, i malvagi fummo noi, imperialisti e crudeli. Il film ha il pregio di essere meno ridicolo dell’altro esempio di soap opera su grande schermo che risponde al titolo di Troy. Ma appunto per questo è anche molto meno divertente del film di Petersen, e l’occhio corre più di una volta all’orologio in attesa dei titoli di coda. Si accosta invece, per integralista zelo crociato all’incontrario, al funesto The Passion, che resta peraltro un modello tuttora insuperato di fanatica impudenza e blasfemo sadomasochismo. Degli attori e della loro più o meno marcata insignificanza si è già detto – la compagnia viene illustrata dalle presenze altere e inerti di Liam Neeson e Jeremy Irons. Ma dietro la maschera d’argento (storicamente inverosimile, assicura il medievista Cardini, però l’effetto è assicurato) del re lebbroso morente e rassegnato, simbolo a se stesso della precaria evanescenza dei destini di pace (quanto solide e durevoli sono invece le facce degli intrallazzatori e dei doppiogiochisti, dei furfanti in abito da crociato, dei vescovi pusillanimi e ottusi !) si cela Edward Norton. Giuriamo di averlo scoperto solo al termine del film, ma avevamo sospettato che lo sguardo luminoso e triste che animava quel corpo senza volto appartenesse a un grande attore.