TRAMA
La famiglia Carter decide di attraversare il deserto del New Mexico. Ad attenderli un manipolo di predoni psicopatici, resi deformi dagli esperimenti nucleari del Governo degli Stati Uniti. Non sarà una passeggiata.
RECENSIONI
Alexandre Aja è pazzo. Risulta ormai evidente, per chi ha visto il malato e disturbante Alta tensione e si avvicina oggi al rifacimento del film di Wes Craven (qui produttore). Come tutti i pazzi, è un genio. Chiaro anche questo, basti considerare la cifra malsana di questa operazione. Caso rarissimo, riducendo l’originale a mero pretesto (ispirato a, si legge in apertura) per scatenare le proprie manie, il film è una lunga, insostenibile, crudele distruzione della Famiglia Americana. E allora? Fin qui niente di particolare, giusto, ma è nel modello rappresentativo di Aja che cova una rete di peculiarità. Tra tutte, un’overdose di pura violenza, eccessiva e pleonastica, meticolosamente studiata per rendere letterale lo smembramento dell’Istituzione, riducendo in pezzi il nido domestico non solo per metafora (la produzione informa che è stata tagliata una sequenza di otto minuti, in cui pare che il regista abbia davvero esagerato, per aggirare negli Usa il fatidico VM18). Le colline spiazza dai titoli di testa, dove soavi funghi atomici si alternano a corpi deformi e feti abortiti, prima ancora dell’inizio del film. Inizia poi il gioco sulla minaccia dello spazio aperto - un po’ Wolf creek - , desertico e sterminato, in cui Aja sembra sposare il registro classico dipingendo una famiglia allargata in marcia verso la catastrofe; già qui, nella pedante descrizione degli ingranaggi parentali (non di rado conflittuali e/o sprezzanti), strisciano però sotterranei elementi di rottura che, al bando il mezzo sonoro e altre tecniche da manuale horror, apparecchiano un senso di destabilizzazione claustrofobica attraverso lo slittamento tra significante e significato del film (il predone, armato di cannocchiale, ascolta e ripete meccanicamente il frasario dell’americano medio). La famiglia che abita la prima parte del film, ma questo lo si capirà dopo, è descritta in maniera tanto variegata solo per consentirne una migliore distruzione (il capofamiglia, orgoglioso ex poliziotto maschio e repubblicano, finirà subito alla brace). Il primo assalto dei mostri segna lo spartiacque: qui mutano i contorni, cambiano (e diminuiscono…) i personaggi dinanzi alla Follia, ma soprattutto la vicenda deraglia bruscamente su binari di aperto antimanicheismo. I predoni uccidono, certo, ma non fanno lo stesso anche i Carter? Loro sono mostruosi, sicuro, ma chi li ha resi tali da scatenare una rabbia primitiva? Seminando il dubbio, coltivando implicitamente il quesito, il regista raggiunge vette di perversione inesplorata, proprio perché l’orrore non è spiegabile con la categorizzazione buono/cattivo, che qui salta in aria. Illuminante, per chi non volterà il capo, la sequenza dello stupro di Brenda: dei due mostri, uno non può violentarla per questioni fisiologiche, e si dispera. Successivamente, le frecciate contro il Sogno (o per metonomia, se preferite, contro le nefandezze dell’animale uomo) si fanno sempre più solari, rendendo il film una collezione di oggetti disturbanti (la tivvù, il mostro che canta God bless America, la tavola imbandita, la bimba deforme…) che non conosce pietà per noi spettatori. D’altra parte, Le colline salda definitivamente il conto con l’horror di inizio millennio: contro l’inflazionata moda di alludere, insensati settimi sensi, sceglie invece di mostrare, perbacco, e mostra eccome. Così i membri della famiglia perfetta, rovesciando gli evidenti rancori iniziali, infine si ritrovano meno numerosi e si abbracciano, lordi di sangue. Che roba.
Non è un film cattivo o scorretto. E’ malvagità pura, un incubo senza uscita, l’orrore migliore degli ultimi anni alla faccia del remake.
Riecco, schietto, il ritorno ai seventies. Dopo remake ufficiali come The Texas Chainsaw Massacre di Nispel, e non ufficiali come Wrong Turn di Rob Schmidt, Alexandre Aja rifà un altro “classico”, Le colline hanno gli occhi. Il problema è che nel frattempo si è messo in mezzo, sudaticcio, Rob Zombie che con un montante prima (La casa dei 1000 corpi) e un diretto al volto poi (The Devil’s Rejects) ci ha schiarito le idee: lo sguardo al passato à la Nispel era davvero gradevole ma vuota facciata, matrimonio impossibile tra l’horror eversivo e (socialmente) critico che fu e il suo più o meno esatto contrario, ossia l’istituzionalizzato universo cinematografico del produttore-demiurgo Michael Bay. Il fumo negli occhi era il gore, ri-settato su livelli inopinatamente alti. Ma si diceva di Zombie: è soprattutto The Devil’s Rejects che riporta veramente in vita quel tipo di cinema, sia nella “volontà” di uscire dal comune seminato con tripartita furia iconoclasta (Dio, Patria, Famiglia) che nella “rappresentazione” (anche ma non solo) grafica del Male, con un sadismo tout court che non consente posizionamenti etici definiti(vi). Le colline hanno gli occhi è una curiosa, e per molti versi riuscita, via di mezzo; la regia di Aja è attenta, non esagera con la camera a mano, fa un buon uso della soggettiva (come da titolo) “dalle/delle” colline, profonde minacciose panoramiche e avvolgenti carrelli laterali ma è soprattutto capace, con abbondanza di piani ravvicinati, di generare la necessaria “claustrofobia agorafobica” che ben si confà a un horror ambientato nel deserto. Ed è anche furba, nel far sembrare Le colline un film più estremo e incompromissorio di quello che in effetti è: lo fa soprattutto indulgendo sull’ormai risaputo dettaglio splatter e indietreggiando invece nei momenti più scomodi (uno su tutti: lo stupro). Ed è un po’ questo il trucco di Aja: mentre Rob Zombie rallenta il gratuito, già insostenibile omicidio di un’altruista infermiera di mezza età, lui promette pari abominio ma poi lo sublima in campo lungo o in una innocua esposizione di frattaglie. A conferma della relativa “normalità” della pellicola c’è infine l’univoca chiarezza del messaggio: i "mostri" si ribellano all’ipocrita società, meglio ancora se repubblicana, che li ha prima partoriti poi emarginati. Gustose le citazioni, dalla più scontata (l’occhialuto padre di famiglia “diventa” il campbelliano vendicatore insanguinato caro a Raimi) alla meno attesa (il ragazzo deforme in carrozzina “è” il Rubber Johnny del geniale, aphexiano Chris Cunningham).
Se Alta tensione, almeno per due terzi della propria durata, articolava il terrore declinandolo secondo le forme dello sguardo soggettivo, Le colline hanno gli occhi è un film accecato dalla sua matrice, è un film (che ha) già visto, (che ha) già guardato. La pellicola di Aja/Levasseur (i due fanno coppia fissa da sempre) non è il semplice remake di The Hills Have Eyes di Wes Craven ma è, per così dire, lo stesso film amplificato, gonfiato a dismisura, elevato al cubo. In qualche modo è quello che il film di Craven avrebbe potuto essere se ne avesse avuto le possibilità economiche, tecniche ed estetiche. L’affermazione vale doppiamente: da una parte intende ridimensionare il film del 1977, dall’altra intende dimensionare quello di Aja/Levasseur collocandolo nella prospettiva del “rifacimento espansivo”. Sotto la supervisione dello stesso Craven, Aja e Levasseur hanno infatti amplificato la materia narrativa di partenza dilatandone ogni aspetto: se nel film originale si faceva riferimento agli esperimenti nucleari condotti dall’aeronautica, nel remake il deserto del New Mexico diventa un’area spaventosamente contaminata, costellata di crateri scavati dai bombardamenti e popolata da uomini-mutanti inselvatichiti e regrediti a uno stato animalesco. Ciliegina sulla torta: al di là della miniera abbandonata spunta un villaggio sperimentale abitato da manichini e mutanti in perfetta armonia. Ancora: nell’originale, il benzinaio incontrato all’inizio dalla famigliola è un vecchietto un po’ strambo che sconsiglia ripetutamente di prendere la scorciatoia, mentre nel rifacimento lo stesso personaggio si trasforma in consigliere maligno che suggerisce perfidamente ai malcapitati di prenderla, quella scorciatoia. Il catalogo si potrebbe allungare a dismisura - e un tantino inutilmente - in un puntiglioso elenco di tutti i luoghi di intensificazione del remake: definizione delle psicologie, modalità dell’imboscata, atrocità del massacro, coefficiente di rabbia scatenata nei superstiti, litraggio di sangue e così via. Dove invece il programma di potenziamento risulta particolarmente rappresentativo è nell’esplicitazione del sottotesto politico e nell’amplificazione del dato visivo. La dilatazione della componente politica costituisce forse l'aspetto più eclatante: la carneficina di sapore eversivo del film di Craven degenera, nel remake, in uno sterminio che colpisce con meticolosa sistematicità non soltanto i portatori dei valori tradizionali ma anche i loro emblemi. Il fattp è che questa enfatizzazione, portando completamente allo scoperto il tema politico, lo assimila agli altri elementi filmici, livellandolo verso l’alto e finendo per indebolire la virulenza a bassa definizione dell’originale. Ne risulta un film sì manifesto, ma sostanzialmente innocuo nella sua frontalità. L’amplificazione visiva a lungo andare produce lo stesso effetto di appiattimento: se nel prologo il formato cinemascope ingigantisce la ferocia della violenza, magnificandone la terribilità, col passare del tempo l’ipertrofia ottica parifica ogni cosa nel turgore del dettaglio. Perfino i campi lunghissimi, nella loro pronunciata localizzabilità, somigliano a dettagli rovesciati: particolari gigantescamente lontani. Alla saturazione tematica, insomma, corrisponde una saturazione visiva che dilata l’originale fino a livellarlo perfettamente, correggendo così proprio quelle imperfezioni che, nel loro eroico pauperismo, rendevano il film di Craven un piccolo scatto insubordinato. Fotografia umidiccia del fido Maxime Alexandre e musiche adeguatamente martellanti di Tomandandy. Doppiaggio meno disastroso del solito.