Le altre sezioni

Circumstance
_x000D_(Maryam Keshavarz, Iran 2011, 105’)

Le trasgressioni di due ragazze a Teheran tra sesso, anfetamine e matrimoni combinati. Premio del pubblico al Sundance, presentato con grande pubblicità nella sezione Extra di Mario Sesti, la presunta “vetta” del festival si basa su una malintesa idea di trasgressione: per affrontare il tema fondamentale della gioventù iraniana, in dissidio coi padri e in lotta per la libertà, il regista è convinto che basti un bacio saffico tra giovani donne, oppure mostrare le stesse seminude che ballano Total eclypse of the heart (non si vede nulla, astenersi voyeur). Se la messinscena è facile e pretenziosa, non migliora l’aspetto concettuale all’insegna dello schematismo e dell’evidenza: religione vs modernità, amore vs interesse e così via. D’altronde cosa dire di un film dove la protagonista esclama, in barba ad ogni realismo: “Voglio andare in un altro paese dove posso essere libera”? Come sempre, la volontà di provocazione è rischiosa se resta tale e manca la parte riflessiva. Scena scult: il doppiaggio di Milk con voce in falsetto, in un accostamento tra alfieri dei diritti civili quantomeno ardito. Voto: 3

Death of a Superhero
_x000D_(Ian Fitzgibbon, Germania 2011, 98’).

_x000D_Donald ha 15 anni e sta morendo di cancro, la sua attività principale è disegnare le avventure di un supereroe. Dal romanzo di Anthony McCarten (anche sceneggiatore), quando il cancer movie incontra il film a fumetti. L’idea di fondo è chiara e coerente, sia a livello concettuale che visivo: vedi il “cattivo” del fumetto a rappresentare la malattia o il supereroe calvo come Donald dopo la terapia. Il problema del film di Fitzgibbon è il suo andamento: i nodi più stimolanti – la corrispondenza tra due mondi (il reale/il comic) e gli innesti animati – non sono sviluppati, preferendo concentrasi maggiormente sulla sfera della realtà. E qui abbiamo solo un’operina melensa e strappalacrime, che ripercorre vari stereotipi attraverso stinte macchiette (dai genitori allo psicologo) e che si tuffa nell’ovvio melò da college, dal primo bacio alla festa del liceo. Il regista ambisce alla riflessione sulla Morte ma non sfiora nemmeno un Restless di Van Sant, e purtroppo ci crede davvero. Voto: 4

Le diable dans la peau
_x000D_(Gilles Martinerie, Francia 2011, 82’)

_x000D_Scritto da Nicolas Peufaillit, tra gli sceneggiatori de Il profeta, il film racconta l’estate di due fratellini attraverso una descrizione realistica, focalizzando sui momenti più quotidiani (i giochi, le partite alla Tv). Il tema è la separazione: a fine estate Xavier e Jacques si lasceranno, il secondo è atteso da una scuola speciale. L’autore francese mette in scena una “ultima estate”, ma solo apparentemente, per poi deviare improvvisamente verso un altro territorio (l’evento centrale non sarà la separazione). Rileggendo situazioni tipiche, impaginando attentamente stereotipi, egli applica gli elementi di genere con deviazioni dal reale al fiabesco (il padre violento in funzione di orco). Alcuni meriti certi: le scene più “forti”, come la lite tra ragazzi che finisce nel sangue, il dubbio che fa capolino (Xavier è davvero da scuola speciale?), l’uso dosato della sequenza shock che culmina nell’efficace tragedia del pre-finale. Voto: 6

My week with Marilyn
_x000D_(Simon Curtis, Usa 2011, 96’)

_x000D_Tratto dai diari di Colin Clarke, terzo assistente alla regia de Il principe e la ballerina di Laurence Olivier, che raccontano la lavorazione del film e la sua breve liaison con Marilyn Monroe. Tantissimi i punti di interesse nella pellicola del regista televisivo Simon Curtis, che rievoca gli eventi del 1956. L’attrice è motore dell’azione e dei personaggi, con i quali intercorre un rapporto almeno di tre tipi; lo sfruttamento da parte di MM, che fa leva sul carattere instabile e sfaccettato per ottenere vantaggi per sé stessa (la libertà dagli orari di lavoro, la libertà dal vincolo matrimoniale); lo sfruttamento contro MM, perpetrato dalla corte che gravita intorno a lei per denaro (la figura emblematica dell’insegnante di recitazione, Paula Strasberg); la deriva personale della diva, l’abuso pesante di farmaci e pasticche già iniziato in quegli anni. Dietro a questi “macrotemi”, in filigrana, si muove il tentativo di indagare il carattere reale di Marilyn, la sua vera essenza: la profonda consapevolezza dell’interprete (dell’essere star e del mondo esterno), sempre sul set nel ruolo di sé stessa, si concreta nella ripresa della reggia, dove la Monroe assediata dai fan entra in scena e interpreta la parte (– Devo iniziare a recitare?). Sullo sfondo seguiamo l’intreccio tra culture cinematografiche (Monroe/Usa – Olivier/GB), insieme all’atavico scontro cinema vs teatro (Monroe – Olivier, ancora) e cenni di conflitto di classe, con la chiara distinzione tra piani alti e bassi nel corso della produzione. In questa varietà di punti di vista, purtroppo, manca la regia: le curve più interessanti e complesse della storia sono accuratamente evitate, limitandosi a brevi allusioni, in un approccio che preferisce la narrazione convenzionale e la leggibilità immediata. Dalla voice off di Clark che spiega l’intreccio alle scene più esplicite con i monologhi dell’attrice, la sceneggiatura dello stesso Curtis a Adrian Hodges denuncia un difetto costante di scrittura, troppo sbilanciata verso l’esigenza di sciogliere tutti i nodi sul tavolo. La pellicola è splendidamente sostenuta dagli attori a loro agio nel metafilm, a partire dalla memorabile mimesi di Michelle Williams (possibile Oscar) e passando per un superbo Kenneth Branagh, Eddie Redmayne, Judi Dench. Alla fine, malgrado tutto, il mistero è parzialmente intatto: l’investigazione caratteriale viene frustrata e Marilyn Monroe, eterea e indefinita, resta inconoscibile. Lo conferma Branagh/Oliver in sala di montaggio, che con un’illusione (lo schermo cinematografico…) distrugge un’altra illusione, quella di capire la diva, e pronuncia l’epitaffio del film: il cinema, gli attori sono fatti “della stessa materia dei sogni”. Voto: 6

Too Big to Fail
_x000D_(Curtis Hanson, Usa 2011, 110')

_x000D_Trasposizione dell'omonimo libro di Andrew Ross Sorkin. Curtis Hanson romanza la crisi finanziaria per l’opera televisiva trasmessa in Usa dal canale HBO: il film focalizza sui responsabili, i manager dell'alta finanza (da Lehman Brothers a Goldman Sachs) che girano intorno a Henry Paulson, segretario del Tesoro dell'amministrazione Bush, alle prese col tentativo disperato di evitare lo scoppio della bolla speculativa del 2008. Il lavoro, denso di scambi e battute veloci, si presenta quindi come un continuo rimpallo tra squali che, arroccati alla difesa dei soli interessi personali, si applicano all'impossibile salvataggio delle società tra spartizione dei dividendi e campagna elettorale. Nella scelta di escludere la gente comune, che viene cristallizzata da sentenze esterne (Wilkinson: Le persone si comportano ancora normalmente, come se niente fosse), il regista di L.A. Confidential gira una tragedia da camera, teatrale, con molte stanze del potere e pochi esterni: una scatola chiusa colta a catastrofe avvenuta, che si limita a certificare la crisi e annunciarla (o nasconderla) alla cittadinanza. Ben scritto, interpretato e diretto, il film sconta a tratti il contenitore televisivo nella scelta delle soluzioni convenzionali e delle battute più didattiche; ma dall’altra parte sfrutta lo schermo domestico per tentare la particolarità, apertamente divulgativa e dalla parte del popolo, possibile ripartenza rispetto al più imbrigliato cinema hollywoodiano. E queste maschere di potenti, basti vedere le smorfie di William Hurt (Paulson), isolano chiaramente l'elemento ridicolo e grottesco intrinseco nei pochi, incapaci burattinai che tirano le fila globali. Celebrata per i suoi attori, la pellicola è anche un gioco tra divi a rischio leziosità, che regala il brivido di James Woods nella parte di Richard Fuld (il chairman del fallimento Lehman Brothers). Voto: 6.5

Tyrannosaur
_x000D_(Paddy Considine, Gran Bretagna 2011, 91')

_x000D_Joseph è un uomo violento, alcolizzato e solitario. Tra risse e bevute incontra Hanna, una negoziante ugualmente sola che nasconde un segreto. Il Focus sulla Gran Bretagna porta al festival l’esordio alla regia dell'attore Paddy Considine, con protagonista Peter Mullan. Inserendosi nella linea del cinema inglese che comprende titoli come This is England o Neds dello stesso Mullan (d’altronde Considine nel 2004 ha sceneggiato Dead Man's Shoes di Meadows), il film conferma sostanzialmente alcune riserve sulla “new wave” anglosassone. Nello specifico, pedinando l’incontro fra due solitudini diverse ma con punti comuni, Considine sviluppa un’idea drammatica basata su scene forti e sulla scossa “contro” lo spettatore; attraverso corrispondenze e assonanze interne (i due cani uccisi, all'inizio e alla fine), vuole ritrarre un mondo che ha introiettato il concetto di violenza, non giudicata perché ormai endemica al contesto. In questo scenario devastato, in odore di working class londinese, ovviamente sarà possibile un contatto tra le anime e la speranza di un domani migliore, ferma restando l’amarezza costitutiva e il senso di sconfitta esistenziale; tutto legittimo, naturalmente, ma il film non decolla affidandosi alle singole sequenze, mai alla visione complessiva, all’aneddoto e alle prove attoriali, all’uso del dramma come una clava, estenuante e vagamente ricattatorio, spesso paragonabile ai ripetuti “botti” degli horror meno incisivi. Resta la potenza – anche in decibel – di singole scene, barcolla la costruzione d’insieme. Dopo il Sundance, anche la kermesse romana ha incoronato la recitazione esplosiva di uno scatenato Mullan. Voto: 5.5