Drammatico, Recensione

L’AVVERSARIO

Titolo OriginaleL'Adversaire
NazioneFrancia
Anno Produzione2002
Durata120'
Tratto dadal romanzo di Emmanuel Carrère
Fotografia

TRAMA

Nel 1993 Jean-Claude Romand trucida la sua famiglia e tenta il suicidio. Vuole evitare che si scopra che la sua vita è una menzogna da diciotto lunghi anni.

RECENSIONI

L'avversario è la storia di una assenza, di un vuoto. Un vuoto che si ingrandisce sempre di più, fino a diventare una voragine che immancabilmente inghiotte il suo mondo, fa collassare il sistema di equilibri sul quale si era retto fino ad allora. Un vuoto che parte da un episodio piccolo, microscopico, apparentemente insignificante ma che non cessa mai di crescere lentamente, di nutrirsi e di inglobare persone e cose. Daniel Auteuil dà volto ad un nuovo personaggio tragicamente reale, ispirato a un fatto di cronaca già portato sullo schermo da Cantet con il suo A tempo pieno. Un lungo flashback ci conduce al misterioso e inquietante inizio, un procedimento circolare che continua alla fine con l’epilogo che lascia in vita il game-maker, il carnefice stesso. L’apparente amoralità del personaggio è in realtà acuta inettitudine, ovvero incapacità di vivere gestita con arguzia. Ma la finzione non può durare per sempre. L’equilibrio crolla a causa di piccoli errori, di imprecisioni che viziano il meccanismo. La grandeur è nemica della bugia, e la bugia è spesso tentata dalla grandeur. Il vuoto è interiorizzato dal protagonista che lo metabolizza e ne fa uno stile di vita alternativo, come lui stesso sottolinea, anche se la sua vita è segnata dalla tensione verso la normalità. Tutto ciò che mette in piedi è caratterizzato dall’ossessione, dalla ricerca di una comprensione che lui stesso si nega. I sonni di Jean-Marc Fau (significativa alterazione del nome biografico) sono comatosi, indotti dal ritmo sonno-veglia ma non riposanti. Lo stato di durevole stanchezza è vegetativo, il personaggio è perennemente sveglio e sta perennemente dormendo. O meglio, sta perpetuamente sognando. Sta sognando la vita ideale, la carriera ideale, la famiglia ideale, l’amante ideale. Ma il suo è un sogno costoso, che lo porterà all’inevitabile sgretolamento. E nella sua visione paranoica, tutto ciò che ama, tutto ciò che ha creato e che dipende da lui, deve sgretolarsi insieme a lui. I suoi sonni sono oblii, dimenticanze nelle quali perdersi. Zone d’ombra in cui non viene controllato dalle banche, dalle società finanziarie, dai suoi viaggi di lavoro passati a nascondersi. L’affascinante mistero di una mente atipica, divenuta criminale per la pressione endemica, è brillantemente commentato da Angelo Badalamenti, veterano delle note sospese, con toni grevi e cupi, che passano dai timpani per fermarsi allo stomaco e depositarvi tutta la loro tensione e il loro carico emotivo latente. In sostanza un film bello e giustamente asettico, diretto dalla Garcia con pochissima retorica appena sfiorata da piccolissimi particolari (vedi il feticcio della tazza rotta sul pavimento) che forse si sarebbero potuti evitare. Nel complesso il tono distaccato e non judgemental è particolarmente indicato: la vicenda parla da sé, e qualsiasi commento sarebbe sinceramente di troppo.

E' quanto decide di fare il distinto Jean-Marc Faure per rispettare aspettative sociali che ha abbracciato senza mai mettere in discussione: laurearsi a pieni voti, trovare una professione prestigiosa, sposare una bella donna, avere dei figli, comperare una villa, un auto di lusso, insomma essere invidiato, rispettato e, chissa', forse amato. Un affetto vincolato alla dimostrazione. Che tutto cio' sia solo una bella immagine, poco importa a Jean-Marc, che sceglie di imitare una vita non sua per ben quindici anni. La cosa curiosa e' che, potere della "comunicazione", nessuno si accorge di nulla e, soprattutto, che la storia e' tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto. Gli stessi eventi avevano gia' ispirato il lungometraggio "A tempo pieno", premiato al Festival di Venezia nel 2001, ma Laurent Cantet aveva costruito un film soprattutto politico, in cui metteva in discussione un sistema di non-valori basati sull'apparenza. Tant'e' che la cosa piu' tragica del film era la conclusione "positiva", in cui il protagonista confessava le sue bugie alla famiglia, veniva perdonato e trovava un lavoro. Nicole Garcia, invece, segue con piu' fedelta' il caso di cronaca, non giudica il personaggio e il contesto sociale in cui si muove, e lascia allo spettatore il compito di trarre conclusioni.
Non facile costruire un percorso psicologico ed emotivo partendo da una vicenda gia' nota, ma il regista riesce a creare una sintonia tra le inafferrabili motivazioni del protagonista e il pubblico. E' una disturbante empatia quella che si sviluppa con Jean-Marc, un itinerario che, seguendo passo dopo passo le sue gesta, finisce con illuminare la parte piu' buia dei suoi pensieri. Gran parte del merito e' della strepitosa prova interpretativa offerta da Daniel Auteuil, ormai icona della recitazione contratta e davvero efficace nel tratteggiare nel silenzio un disagio quanto mai forte e urlante. La messa in scena opta per la sobrieta' e riesce, tra le pieghe del quotidiano, a creare una tensione quasi insostenibile. E' impercettibilmente crescente, infatti, il contrasto tra la quiete formale di giorni che si trascinano nella iterazione di gesti ormai dati per scontati (aprire porte, svegliarsi, salutare, uscire per andare al lavoro, telefonare, mangiare) e l'ansia senza sosta di una mente incapace di trovare e cercare soluzioni non distruttive. La razionalita' non offre appigli, cio' che si vede non e' cio' che viene vissuto e la discesa agli inferi non consente scappatoie. La sceneggiatura frammenta il racconto partendo dalla fine, che viene solo accennata per essere poi sviscerata nei flashback che costituiscono il fulcro del film. Scelta non originale, ma necessaria per suscitare una progressiva curiosita' sui dettagli della storia e per movimentare una narrazione altrimenti prevedibile. Il film, compatto e senza tempi morti nonostante il piglio pacato della regia, diventa ridondante solo nello scioglimento finale. Nessun effetto grandguignolesco, ma un indugiare che lascia trasparire un certo compiacimento.