Drammatico

L’ARIA SALATA

TRAMA

Giovane educatore in un penitenziario romano, Fabio si trova di fronte il padre, Luigi Sparti, condannato a trent’anni per omicidio e appena trasferito nel carcere dove lui lavora. Pur essendo padre e figlio, i due non si conoscono: entrato in carcere quando Fabio era ancora bambino, Sparti ha difatti troncato ogni rapporto con la famiglia.

RECENSIONI

Prendendo spunto dalla sua esperienza di volontariato nel carcere di Rebibbia, Alessandro Angelini, affiancato nel lavoro di sceneggiatura dall’amico Angelo Carbone, costruisce con L’aria salata un racconto duro e scontroso, sfruttando l’ambientazione carceraria come cassa di risonanza delle emozioni. Nel chiuso della prigione, il confronto tra due “intimi sconosciuti”, un padre e un figlio separati dalle antitetiche scelte di vita, si carica di un’intensità particolare, amplificata dal rimbombare dei sentimenti in un luogo di privazione e punizione. Costretti a confrontarsi all’interno di un’istituzione che assegna loro ruoli inderogabili, Fabio (Giorgio Pasotti) e Sparti (Giorgio Colangeli) – educatore e detenuto – devono fare i conti con la sconvolgente verità umana che scoprono (e che li scopre) inaspettatamente: Sparti è quel padre che è uscito dalla vita di Fabio quando lui era ancora bambino, l’uomo che ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua esistenza e lo ha spinto indirettamente a fare l’educatore. Fabio è un frammento della famiglia che Sparti si è lasciato alle spalle e di cui non vuole più sapere niente, ombra lontana di un passato perentoriamente rimosso, traccia mnestica sepolta. L’incontro tra i due degenera inevitabilmente in scontro e i traumi si susseguono senza posa, quasi a recuperare il tempo perduto. Ma è in questa irruenza drammatica, in questo furore emotivo che L’aria salata semplifica irreparabilmente il nodo morale della materia: surriscaldando la temperatura sentimentale e precipitando nel dolore stereotipato del rimorso, Angelini e Carbone finiscono per banalizzare la vicenda e farle prendere una piega da fiction televisiva. Al suo primo lungometraggio di finzione (alle spalle quattro documentari e molta esperienza come aiuto regista), il cineasta romano, pur animato da buone intenzioni, confonde la secchezza con la drammaticità, la durezza con l’enfasi, l’incisività con la veemenza. Manca l’asciuttezza, l’elisione che soffoca la conflagrazione del tragico, l’implosione che avvita i sentimenti nell’interiorità dei personaggi. La sottrazione arriva fuori tempo massimo, quando il danno è ormai fatto, soccorso tardivo ad un film funestato da un malinteso senso dell’essenzialità stilistica. Esemplare in questo senso la direzione degli attori: Pasotti grida anche sussurrando e Colangeli indossa per tutto il film la maschera dell’imbronciato. La collera è scambiata per autenticità, la severità per laconicità. Manovrata personalmente da Arnaldo Catinari (il direttore della fotografia italiano più talentuoso in circolazione, secondo chi scrive), la macchina a mano aderisce ossessivamente ai volti dei personaggi, iscrive i corpi nello spazio con implacabile precisione e disegna sezioni luministiche di grande suggestione, ma questo trattamento avvertito e rigoroso dello sguardo confligge con le intemperanze drammatiche della scrittura, precipitato narrativo di molte delle idee di sceneggiatura diffuse scolasticamente. Sorta di Le Fils rovesciato (lì un padre riscriveva l’affetto strappatogli attorno all’omicida del figlio, qui un figlio ricostruisce l’affetto negatogli intorno al padre omicida), L’aria salata incrocia la ruvidezza contratta dei fratelli Dardenne con la rabbia esplosiva di Loach, risultando un ibrido semispettacolare in cerca di una sua compattezza stilistica. Niente a che vedere con un altro esordio italiano che dal 2003 ci è entrato prepotentemente negli occhi e nel cuore: Pater Familias di Francesco Patierno.