
TRAMA
Gli interni barocchi di un albergo a Marienbad: un uomo evoca a una donna un loro incontro precedente avvenuto in quel luogo. O altrove. L’anno prima. O molti anni prima. La donna non ricorda. Forse.
RECENSIONI
Per L'Anno scorso a Marienbad, vertice della produzione di uno dei più grandi cineasti di sempre, secondo capitolo di una trilogia capitale (segue a Hiroshima Mon Amour, precede Muriel) le interpretazioni si accavallano, ma su tutta la letteratura che è fiorita rimane l'enorme potenza suggestiva delle immagini di Resnais. Un inizio in loop che esplode nel cuore, figure e segni, dialoghi e frammenti, realtà e memoria triturate e rimesse in circolo; tutto è sfumato, ogni cosa sfugge nelle algide geometrie disegnate dal regista: luoghi (è davvero un albergo?), persone (chi sono i misteriosi individui che vagano in questi ambienti?), il tempo e lo spazio (mentali?). Il sogno? I fatti? Il ricordo? Passati seriali che si ripropongono immutabili in un immutabile presente? Film unico che si dipana in labirinti escheriani e opera nella confusione dei piani (tutti): stravisto, stracitato, strastudiato, frutto di un'intelligenza cinematografica ineguagliabile, opera maestosa che dimostra che il cinema può farsi arte astratta come la musica, non rinunciando al suo lato narrativo, ma nello stesso tempo senza cadere nelle maglie dell'aneddotica o nel sentimentalismo dello psicodramma. Film universale e specifico, microcosmo e macrocosmo, immaginario e corporale. Il cinema incrocia il nouveau roman di Alain Robbe-Grillet, autore di una sceneggiatura che Resnais reinventerà senza stravolgerla, e diventa pura avanguardia, sfida alle convenzioni, nuova frontiera. Fotografia di Sacha Vierny. Dirlo capolavoro mi pare sminuirlo.

Basandosi sul testo dello scrittore del nouveau roman Alain Robbe-Grillet, Alain Resnais s’immerge nel flusso dei ricordi, nelle vicende di due amanti sganciandosi dal presente e dalla realtà per rappresentarle, temendo l'oblio della memoria auspicato dalla donna che la rifugge per trovare solo una desolata assenza (anche) da se stessa: quella rappresentata dagli ospiti dell'albergo immobili come statue, abitanti un giardino di cemento, fantasmi di un eterno presente senza passato che il personaggio di Giorgio Albertazzi vorrebbe eludere con l’amata per mantenersi in Vita. Un banale triangolo amante-moglie-marito si trasforma, così, in apologo sperimentale, ermetico, intellettualistico ma anche stimolante, affascinante e, soprattutto, linguisticamente rivoluzionario per il Cinema. Il Grand Hotel, come ripete all’infinito la letteraria voce fuori campo, è un labirinto barocco colmo di prospettive falsate e finte uscite, mentre le voci si sovrappongono impedendo di risalire alla loro fonte: sono presenti, passate, ricordi futuri? “Vi ricordate?”, ripete il protagonista: Dove, Quando, Chi? Non ha importanza nella dimora del silenzio senza passione, dei frammenti da ricomporre che offrono sprazzi di rivelazione per poi richiudersi in se stessi, in un buco nero di infinite reiterazioni (che si specchiano in una forma filmica volutamente spossante) dove la nozione di Tempo è superata mentre mistero e inquietudine (sopr)avanzano. Leone d’Oro a Venezia.
