TRAMA
Nel quinto anniversario del loro anniversario di nozze Nick scopre che sua moglie Amy è misteriosamente scomparsa.
RECENSIONI
Attenzione: spoiler su spoiler.
Si è già scritto di come l’opera di David Fincher sia un consapevole, costruito macrofilm in cui ciascun capitolo contiene sostanziali rinvii agli altri, un complesso incrocio di spunti, argomenti, narrazioni attraverso il quale a colui che vuole sottolineare “come e quanto il tale film è fincheriano” è sempre possibile rinvenire un metodo col quale procedere che si traduca in risultati coerenti. Gone Girl è l’ennesimo esempio di un cinema che dà molto pane alla critica autorialista per come ribadisce tenacemente un discorso di sostanza e di stile e, a livello mediatico, per come innesca il suo bravo nugolo di discussioni più o meno telefonate (questa volta su maschilismo, misoginia, affettività e altro colore).
David Fincher sembra, da parte sua, ben conscio del suo cammino, lo sta costruendo scientemente tappa dopo tappa, proponendo una poetica di laboratorio (meglio ancora: imponendola) di volta in volta aggiornata; sceglie storie che, dunque, possano confermarla, le mette in scena con la consueta perizia e alla sua maniera: sgombrando il campo da orpelli psicologistici e da sottolineature riflessive, demandando tutto all’azione.
Ogni atto, nei suoi film, ha un senso pieno, per cui se nella scena del bar all’inizio di Gone Girl, nella consegna della scatola del Mastermind di Nick alla sorella, non si rinviene alcuna utilità ai fini dell’intreccio, per l’Esegeta in caccia di conferme quella è una chiara, sfrontata dichiarazione: Il film che stiamo per vedere, come tanti precedenti del regista (il manifesto è, ça va sans dire, The Game) è un rompicapo, un nuovo mind game con una soluzione da decrittare. Dunque l’Esegeta lo scriverà e la trattazione che sta battendo al pc avrà il suo bell’incipit.
Poco più avanti fratello e sorella sono alle prese con un classico gioco da tavola, col tabellone che indica un percorso a spirale (Nick arriva, guarda caso, sulla casella del matrimonio), un labirinto che, casella dopo casella, prevede scoperte, passi indietro, riepiloghi, progressioni di conoscenza, imprevisti, domande («Il gioco della vita: non ricordo a che serve»).
Comincia, poi, la partita principale: la caccia al tesoro ideata da Amy (le fanno eco quelle fondanti di Se7en e Zodiac, farà allora notare puntualmente l’Estensore), ricerca di indizi e incroci di deduzioni che si sovrappongono alla detection principale, quella condotta dalla polizia a seguito della scomparsa della girl: quello che era un passatempo dei soli coniugi, da praticarsi ad ogni anniversario di nozze, diventa, in ogni senso, un gioco di società. Fincher - Chi-Scrive potrà concluderlo - anche con questo film propone un suo stilizzato percorso ludico, l’ennesimo meccanismo puro in cui la storia e il suo sviluppo sono in costante primo piano, ogni implicazione tematica, ogni conseguente valutazione emergendo, infatti, dalle dinamiche messe in circolo e in cui lo stesso mondo esterno, come il tabellone del gioco di cui sopra, è completamente asservito alle esigenze del plot. Al solito, dunque, allo spettatore non si offrono spiegazioni, motivazioni, scavi nelle intenzioni dei personaggi-pedine: ogni cosa è in superficie.
Tutta la storia si sviluppa in modo evidente e senza sottotesti, tutti i personaggi sono maschere classificabili all'istante, delle istanze elementari, dei paradigmi: l'ispettore di polizia (comprensiva, ma attenta ad ogni minimo indizio), il suo collega (prevenuto), la vicina di casa (ottusa), la presentatrice in tv (perfida), l'avvocato (affidabile). Tutti gli elementi vanno pensati come ingranaggi che devono far marciare la narrazione, segni di abbagliante chiarezza: il locale di Nick che si chiama The Bar («Bel nome, molto autoreferenziale »- ma in originale è meglio: «love the name, very meta» -), il primo bacio che viene scoccato in una spudorata nuvola di zucchero, il film che si apre e chiude nello stesso modo: lo sguardo imperscrutabile di Amy, la superficie inscalfibile del personaggio («A cosa pensi? Come ti senti?»), i suoi pensieri essendo, come per qualsiasi carattere fincheriano che si rispetti, insondabili («Immagino di aprirle quel suo cranio perfetto e srotolarle il cervello»).
Il film, dipanando due principali fili narrativi, segnalati dalle didascalie, rispecchia la struttura bipartita del romanzo: quello del presente che vede protagonista Nick (ma mentre nel libro egli parla in forma diaristica, dunque in prima persona, nel film ne constatiamo l'agire), e quello del passato, come risulta dal diario di lei. Ma Nick e Amy parlano del loro ménage in termini antitetici: chi sta mentendo?
Allo scoccare della prima ora l'apparente whodunit si dissipa con la scoperta che quello di Amy era un gioco di ruolo e il personaggio interpretato quello della moglie innamorata, vittima di un marito sempre più indifferente, fiaccato dalle circostanze della vita (il licenziamento, la malattia della madre) e fedifrago (la rivelazione dell'esistenza della giovane amante è una macchia che ottenebra le certezze già vacillanti dello spettatore, non solo della sorella del protagonista). Amy, figlia di scrittori, è infatti cresciuta nella continua reazione alla narrazione che di lei hanno fatto i genitori attraverso i loro romanzi per ragazzi, si è confrontata costantemente con quell'alter ego letterario. Dunque come i genitori hanno inventato una Mitica Amy, a uso e consumo del loro lettori, così lei inventa, a suo vantaggio e ad uso e consumo degli investigatori (e di riflesso del pubblico che l'ha amata per quello che non era, conoscendone solo la versione mitica), scenari e fiabe con al centro un Pessimo Nick, pieno di limiti, che non mostra comprensione per la dimensione femminile, indifferente e violento.
A questo punto si innesca un discorso sul Contemporaneo e il Critico potrà agevolmente sostenere che The Social Network ne costituisce la premessa: come in quel caso importanti non sono gli avvenimenti, ma come vengono narrati, perché questo conta agli occhi dell'opinione pubblica, pronta ad essere indirizzata, attraverso un uso adulterato dei media (televisione, stampa, internet con tutti gli addentellati: social forum, youtube, blog) verso un pensiero unico, ma permeabile ad altre infiltrazioni, che non è meno condizionato di quanto sia lo spettatore all'inizio del film, quando il racconto gli fa formare un'opinione che si rivelerà completamente errata e fondata su presupposti artefatti (in questa sede sarà proprio il caso che il Recensore faccia notare, bullandosi un po', che, come in Millennium, anche in questo film, non c'è la presunta vittima, quella potenziale si scopre viva e vegeta). La tecnologia è al servizio di questo artificio; si pensi soltanto allo chalet di Desi in cui Amy si rifugia: gabbia ipertecnologica (l'uomo mostra con orgoglio alla ex tutti i ritrovati di cui dispone) in cui ogni stanza è ripresa con una telecamera - come se fosse lo studio de Il Grande Fratello -, un dispiego massiccio di high-tech che, ovviamente, la donna piega alle sue esigenze, ovvero, ancora una volta, inquinare i fatti, mistificarli, costruirne una versione che le risulti vantaggiosa e realizzi i suoi scopi. L'intero racconto è segnato da questi mezzi, ne sono il fondamento: come in The Social Network, come in Millennium, la storia non potrebbe essere narrata senza di essi, concluderebbe il nostro Saggista.
Il film punta dunque l'attenzione sulla duplicità dei personaggi, ovvero come essi appaiono (il teatro pubblico), essendo altro (il teatro da camera): per cui alla distruzione dell'immagine pubblica di Nick che Amy ordisce, non può che far riscontro il tentativo del marito di ricostruirla con gli stessi strumenti (che è, tripudio&gaudio del Critico, quello che cercano di fare anche lo Zuckemberg di The Social Network e la Salander di Millennium). Allora l'intervista televisiva è il gioco di strategia di Nick: al tentativo della moglie di metterlo in scacco, risponde la contromossa di lui. Nick ha capito, infine, che quell'affermazione che ha fatto all'avvocato («la verità è la mia difesa») è completamente destituita di fondamento, che la partita si gioca su un campo in cui la verità non solo non vincerebbe, ma segnerebbe una debacle. La realtà non conta per una generazione che, dopo la televisione e il cinema, è cresciuta con internet, una generazione che fa capo allo stesso copione, un generatore pubblico di frasi e atteggiamenti che consente a chiunque sia un po' scaltro di sapere cosa dire e come comportarsi: è questa capacità opaca, non la trasparenza, a garantire la vittoria. Ed è così che, in definitiva, come dice Margo, «una mantide del cazzo diventa la fidanzata d'America». Il che porta trionfalmente il Fine Analista al nocciolo dei personaggi fincheriani quali portatori di una retorica di superficie, opportunistica, plasmata dall'interesse contingente e dalle circostanze, quindi sostanzialmente inautentica e, proprio perché mutevole, di difficile decifrazione. La campagna promozionale (con quei manifesti a duplice lettura LOVEless, wHERe etc.) lo ribadisce. La scelta del cast, da questo punto di vista, si rivela anch'essa stringente: Ben Affleck (chi altri?), in particolare, ricopre alla perfezione un personaggio che non sa recitare bene la sua parte in pubblico e al quale bisogna non solo insegnare cosa dire, ma anche come dirlo (very meta, no?).
Il discorso della finzione sociale si riflette anche nell'ambito privato, portando al pettine del Critico l'ancestrale nodo del rapporto a due e di Gone Girl come film sulla crisi a ogni livello (quella matrimoniale, ma anche quella economica, a ben guardare collegate - il Recensore lo farà notare facendo riferimento alla scena del centro commerciale abbandonato, rifugio di nuovi poveri, morti viventi in un luogo simbolo della recessione, scampoli dell'horror più attuale che c'è -).
Quando Nick e Amy si innamorano sono immersi in una idealizzante nuvola di zucchero: dissipatasi, ciascuno fa i conti con quello che vede e nessuno dei due può più «fare finta di essere qualcuno che l'altro vuole». Ecco perché Nick non può chiudere il discorso dicendo che Amy è una troia, senza aggiungere che è la troia che ha scelto e che ha sposato («l'unico momento in cui ti piacevi è stato quando cercavi di piacere proprio a questa troia»).
L'amore è sempre bugiardo, finisce quando finiscono le fascinazioni e le immagini chimeriche, le recite e le mitizzazioni: a quel punto, partendo dalla lucida consapevolezza dell'inesistenza del sentimento, dalla conoscenza di se stessi, su queste basi di reciproca, spietata onestà, finalmente nudi, si possono contrattare altre condizioni e creare una nuova bugia che stavolta valga solo per gli altri, un amore che si autofondi e che i due coniugi mettono in scena a favore della platea americana, alla fine del film (e qui si otterranno altri bonus per la Mitica Recensione scrivendo che come in Zodiac e in Millennium, la verità non viene a galla, la verità è solo ciò che si sceglie di mostrare). Con questo patto diabolico, Amy, disfacendosi di tutte le narrazioni che le hanno imposto e che lei stessa si è imposta, con questo atto liberatorio, insomma, si emancipa da esse, realizza pienamente se stessa («altro che misoginia!» potrebbe sbottare il Critico, qualora avesse voglia di intrattenersi sulla fuffa dei tipici pezzulli dei quotidiani): ebbene sì, ancora una volta si conferma come i tormenti messi in scena nel cinema di Fincher siano davvero radicali, ne mettono in evidenza la natura politica, lontanissimi, per fare un esempio, da quelli tutti esistenziali messi in gioco da Nolan, in un altro film-congegno come Inception che si muove in una dimensione essenzialmente intimistica e romantica.
Poi toccherà dire che Fincher incanala tutti i motivi in una struttura in cui si rievocano classici: Lang e il solito amato Hitchcock, quest'ultimo soprattutto nel perverso disorientare lo spettatore e nel modo di gestire il femminino: al di là dell'ovvio Vertigo nella reinvenzione dell'immagine della protagonista (il riferimento è spudorato fin dall'origine: nel romanzo Amy apre su Facebook un profilo fittizio chiamandolo Madeleine Elster, come il personaggio interpretato da Kim Novak), non meno rilevanti certe derive psicotiche à la Marnie e, soprattutto, gli echi fantasmatici di Rebecca (qui il Critico va a nozze sottolineando come Amy replichi la figura demiurgica assente/presente del cinema fincheriano: dall'inesistente Tyler/Brad Pitt di Fight Club all'orchestratore dietro le quinte Conrad/ Sean Penn di The Game fino alla Lisbeth/Rooney Mara di Millennium che sparisce dal teatro reale dell'azione per operare solo in via telematica), ma ricondotto alla sua prediletta, raggelata estetica, quella a cui ci ha abituati fin dai tempi dei suoi videoclip. A questo punto, a proposito di girl, il Recensore che abbia un minimo di dimestichezza col pop si va a riguardare il bellissimo noir Bad Girl, clip per Madonna, con Christopher Walken, constatando come Fincher non si sia mai allontanato dal taglio dei suoi promo, non a caso tra i primi ad avere un forte carattere cinematografico: aggiungerà che il Nostro non è un videomaker passato al cinema, ma che è stato, tutto sommato, un cineasta prestato alla videomusica. L'assist per sottolineare il fil rouge sonoro degli ultimi tre film del regista (gli score di Reznor/Ross come marca di riconoscimento) è servito: gol a porta vuota per il Fine Analista che sa chi sono i Nine Inch Nails e, volendo, lo potrà scrivere infiorettando l'affermazione per non farla apparire troppo pretestuosa.
Chiusi diversi discorsi, evitando di aprirne molti altri, ché David Fincher è davvero un amico del Critico e ne fornisce a milioni, ma guai ad abusarne, sennò il gioco di vertigine (ecco quale mancava) diventa troppo facile, assodato che film così stratificati e complessi che impazzino al botteghino non ne esistono (e dunque onore al merito), aggiunto che Gone Girl è più quadrato di Millennium, ma che quello lo aveva acchiappato di più (che fa anche figo, in mezzo a tanti peana), il Recensore (Chi-Scrive, cioè l'Estensore, il Fine Analista, il Critico, lo Sfigato Che Finge Ancora Di Credere Alle Poetiche, insomma) potrebbe chiudere sull'andante della manipolazione: sui protagonisti che si manipolano a vicenda e manipolano il pubblico, sul film che manipola lo spettatore (seminando un bel dubbio finale su quella voce over di Affleck e sciorinando un po' di inquietanti domande: ce la siamo dimenticata? È davvero oggettiva la narrazione presente? Ne siamo sicuri?). Soprattutto: su Fincher che manipola da sempre la Critica e sulla Critica che lo lascia fare perché le conviene (adMISSion).
Grazie a Giulio Sangiorgio, gone boy
Come succede a molti thriller ultraconsapevoli e maniacalmente controllati, anche Gone Girl si confronta con quello che probabilmente è stato il più fragoroso esempio di teologia di massa del secolo scorso: il cinema di Alfred Hitchcock.
Riassumiamola in poche righe, con oltraggiosa brevità. Il cinema, secondo Hitchcock, è incentrato sulla produzione della coppia. E perché mai la coppia non esisterebbe in partenza, ma dovrebbe essere “prodotta” a posteriori? Perché esiste uno squilibrio di fondo, che poi sarebbe la differenza sessuale, che rende un uomo e una donna essenzialmente incompatibili. Solo una finzione del tutto esteriore (tipicamente: il matrimonio) restituisce a uomo e donna una compatibilità. Funziona così: se qualcosa non quadra tra uomo e donna (e qualcosa che non quadra c'è sempre e per definizione), si fa finta che sia colpa di “qualcosa”. Esteriorizzando questo “qualcosa”, anche inventato, le magagne si esorcizzano, e il rapporto (ri)diventa stabile. Dunque, secondo la prospettiva teologica di Hitchcock, sulla coppia (ma in realtà, più in generale, lo stesso vale per qualsiasi genere di scambio comunicativo) grava sempre uno sguardo immaginario (quello “per colpa di cui” virtualmente la relazione non trova un funzionamento liscio e perfetto) che ne minaccia la consistenza, ma che in realtà attende di essere esteriorizzato affinché l'impasse possa venirne in questo modo esorcizzata, liberando dal suo peso gli individui che compongono la coppia (o i poli di qualsiasi scambio comunicativo). Questo sguardo (chiamiamolo sguardo dell'Altro), alcuni lo chiamano Dio, mentre per altri è la psicanalitica scena primaria, il bambino che spia il coito dei genitori. Anche se Dio non esiste, anche se il bambino non è mai nato, lo sguardo dell'Altro è lì, che pesa su di loro, che ostacola l'unione ma in fondo la rende possibile, una volta che la coppia ci abbia sbattuto contro, che abbia esteriorizzato questo sguardo invisibile ma sempre presente. Nel cinema di Hitchcock l'amore non esiste: esiste invece il matrimonio, strumento prezioso attraverso cui la coppia si emancipa dalla propria impasse costitutiva, dallo sguardo costantemente posato su di lei. Per questo, il cinema di Hitchcock (al netto delle pur importantissime appendici precedenti e seguenti) è sostanzialmente contenuto nella parabola che va da I 39 scalini (1935) (dove un uomo e una donna si incontrano per caso, e si uniscono solo dopo aver sventato insieme un complotto su larga scala messo in piedi da uno sguardo invisibile cui viene via via trovata un'identità) a Psycho (1960) (dove una coppia nasce perché “benedetta” dall'eterno bambino Norman Bates che le offre l'occasione di formarsi).
Nella prima scena di Gone Girl, Nick guarda sua moglie Amy, e si chiede cosa ci sia nella sua testa. Non solo non ha idea della risposta (e non sorprende: è Ben Affleck), ma sbaglia anche a impostare la domanda. Non c'è niente da pensare: bisogna solo eseguire. In un'ottica hitchcockiana, una coppia ha una sola cosa da fare per stare in piedi: esteriorizzare lo sguardo dell'Altro. Il che, per Amy, significa fare un figlio, dare una concretezza materiale allo sguardo virtuale che pesa sempre e comunque sulla coppia. Amy lo sa da subito, che si è sempre guardati, e da subito si attiva per mettersi al servizio di questo sguardo, che aspetta che gli si venga data una forma. Amy esegue gli ordini di questo sguardo che attende di trovare una consistenza: solo gli ottusi possono pensare che sia una furba manipolatrice vendicativa, e che sia una che pensa una cosa e la mette in pratica. Tra gli ottusi che lo pensano figura naturalmente Nick (certo, è Ben Affleck), il quale, che si è sempre guardati, non lo sospetta neppure: è un placido ruminatore di reality show, e dunque un voyeur; solo col tempo, inseguendo Amy (la cui vita letteralmente è stata un reality show fin dall'infanzia), e subendo l'assedio delle telecamere che si infiltrano sempre di più nella sua privacy, finendo con l'invadere il salotto, si renderà conto che si è sempre guardati, non si è mai soli a guardare non visti. Per rendersene conto, peraltro, sarebbe bastato fare caso all'inquietante gatto che continuamente staziona occhiuto nella dimora di Nick.
Insomma: Amy, già dalla prima inquadratura, è lì dove ogni coppia (hitchcockiana, perlomeno) ha da essere. Nick no, e dunque rincorre. Gone Girl altro non è che il cammino attraverso cui lo zuccone (del resto, è Ben Affleck) Nick arriva là dove Amy è stata fin dall'inizio: il film non può che tornare al punto da cui era partito, la medesima quotidianità opaca con la spazzatura da portare fuori e un volto impenetrabilmente ambiguo che si rigira nel letto a fianco a sé – l'unica differenza è che il bambino, sempre virtualmente presente, è ora finalmente nato; la coppia ritrova una forzata stabilità liberandosi dal peso dello sguardo dell'Altro nel momento stesso in cui ne viene sancita l'assoluta onnipresenza, con le troupe televisive in salotto a celebrare la definitiva impossibilità che si possa non essere guardati anche quando si crede nessuno guardi.
Il punto ovviamente è: in che modo Nick arriva dove Amy era fin dall'inizio e non ha mai smesso di essere? Il momento chiave, è quando Nick guarda dentro una telecamera rivolgendosi ad Amy. Lui vuole trasmetterle un messaggio, ma Amy ne ricava uno diverso: quello giusto e risolutivo all'insaputa stessa di Nick. Come è stato possibile? È stato possibile perché Nick si è piazzato (pur con cospicuo ritardo) là dove Amy era sin dal primo istante, ha cioè letteralmente ripetuto la primissima inquadratura, quella dell'enigmatico primo piano della moglie. A proprio modo, infatti, nulla può essere più enigmatico della faccia di gomma di Ben Affleck, una massa inespressiva di definitiva ambiguità, dalla quale nessuna determinazione trapela se non quella che lo spettatore stesso è costretto ad attribuire arbitrariamente: nel caso di Amy, questo può solo significare la determinazione che lo sguardo dell'Altro dà a quella faccia di gomma, attraverso di lei. È lì che Amy si (ri)innamora – fermo restando che nell'ottica hitchcockiana l'amore non ha alcun senso se non quello di essere lo strumento indispensabile per un fine superiore, che è il matrimonio. E qui in effetti l'amore di Amy, che pure ci viene presentato come vero e indubitabile, è comunque niente più di un mezzo: il fine rimane il matrimonio e la nascita del figlio. L'amore, pur effettivo e indiscutibile, è solo ciò che sblocca quelli che in quel momento sono gli inceppati ingranaggi della meticolosa macchinazione volta alla produzione del figlio e, attraverso di lui, della “felice coppia sposata”.
In quel momento, insomma, Amy destituisce il proprio stesso essere spietata calcolatrice. O meglio: scopre l'amore quale necessario complemento di quella fredda determinazione. Il controllo non basta, bisogna cedere e arrendersi a strumento dello sguardo dell'Altro. Provare a prendere il posto di questo sguardo assoluto e disincarnato, come promettono i reality show, è vano. Su, questo, il film è chiarissimo. Il personaggio di Desi, “figlio di mamma” maniaco del controllo che non lascia un centimetro della propria casa al riparo dalle telecamere, e ancor più la brutta fine che fa proprio nel momento in cui il suo sogno di controllo si realizza definitivamente, sono lì a dimostrarlo. Ciò che più conta, a dimostrarlo è Fincher stesso, uno dei registi più ossessionati dal controllo che Hollywood abbia avuto negli ultimi anni. Naturalmente, a suo tempo anche Hitchcock lo fu; urgeva dunque liberarsi dell'ombra del Maestro, occorreva esteriorizzare il gravoso sguardo dell'Altro per liberarsene. È ciò che da una vita prova a fare un Brian de Palma – Fincher però va in una direzione completamente diversa, non lontana da quella di un altro illustre hitchcockiano: Claude Chabrol. Assai chabroliano è il partito preso di opacità tonale che qui adotta Fincher, il quale, come in Millennium, prende un romanzo poco più che aeroportuale e lo sfronda selvaggiamente fino a trattenerne solamente un esile filo che gli consenta un'anomalissima progressione priva di suspense. Bruciato il “mistero” con molto anticipo, da quel momento in poi si dedica a mettere un tassello dopo l'altro in maniera puramente logico-evenemenziale, frustrando sistematicamente qualsiasi effetto riconoscibile sullo spettatore. Nella prima parte, quella in cui lo spettatore si chiederebbe “chi è stato, cosa è successo e perché?”, la suspense è perturbata quasi con violenza dalla visualizzazione esplicativa del diario di Amy; quando poi tutte le domande trovano risposta, e lo spettatore è lasciato a chiedersi “come farà Nick a saltarci fuori?”, anche questa sospensione viene sgonfiata dal riferire sempre, in parallelo, cosa succede a Amy; da un certo punto in poi, quando le cose si fanno ulteriormente inverosimili, lo spettatore viene condotto di scena in scena sempre più incredulo, e sulla scia di una specie di forza di inerzia, del tipo “e adesso che altro può succedere?”. Soprattutto in questa parte, la materia che suggerisce un qualche eccesso espressivo è tanta – eppure, Fincher si tiene sempre a un piatto rigore, a un'inesorabile progressione logico-evenemenziale. E basta. Sulla carta, ci sarebbe stato tanto potenziale melodrammatico, tanto potenziale grottesco (e finanche comico), tanto potenziale tensivo in senso thriller: eppure, Fincher scarta tutte le connotazioni di genere che avrebbe a disposizione. Proprio lì sta il suo virtuosismo: ci vuole un'abilità inaudita per raggiungere questa caparbia neutralità di toni. A Fincher non interessa il vuoto totale (nonostante la presenza di Ben Affleck), ma un vuoto tonale, la radicale negazione di ogni possibile connotazione di genere della propria materia. Questo vuoto tonale entra in diretta risonanza con le immagini, con l'opacità che la fotografia costruisce e che ci mette sotto gli occhi per tutto il film: è l'acceso, denso dialogo (spesso rispettoso dei limiti dettati dei contorni, e comunque poco “agonistico”) tra il buio e colori dall'ormai inconfondibilmente fincheriana desaturazione. Ne risulta un'impressione di indeterminazione che attecchisce addosso a un film in cui ogni dettaglio è maniacalmente predeterminato, una specie di macchia di Rohrschach né narrativa né davvero visuale, ma che in un qualche modo si rende percepibile all'interno di quella stessa ultradefinizione. Dentro scorre imperterrito, come un treno in una galleria, il procedere logico della narrazione, che corre dritto dall'opacità dell'apparenza (Nick che si chiede cosa pensa la moglie) a... la medesima opacità dell'apparenza. Tutto viene sacrificato al puro e semplice tirare avanti narrativo, ma quest'ultimo finisce per tornare al punto di partenza. Chiarisce tutto, ma chiarisce anche che una volta chiarito tutto quello che c'è da chiarire, lo spessore opaco dell'apparenza rimane lì, e non c'è verso di scalfirlo. E vince lui.
Quindi, che cos'è che controlla Fincher? Nulla. O meglio: controlla tutto, e non lascia che il minimo dettaglio fuoriesca dal quadro – ma questa meticolosa manipolazione dello spettatore nei suoi meandri narrativi, tutto questo sapiente convincerlo che tale personaggio è innocente e talaltro colpevole per poi ribaltare al momento giusto le carte in tavola, è obbligata a coesistere col fatto che lo spettatore in ultima analisi non viene portato da nessuna parte. L'apparenza era impenetrabile prima, e rimane impenetrabile dopo. Cambia solo il significato di “impenetrabile”: all'inizio era solo Nick a non saperla penetrare, mentre lo spettatore veniva informato per filo e per segno di ciò che passava nella testa di Amy. Alla fine, l'apparenza è impenetrabile perché si è ufficialmente sostituita alla verità. A questo esito ci è arrivata Amy, ma non ci è arrivata inventandosi una finzione menzognera, bensì assecondando lo sguardo dell'Altro, il bambino che “voleva nascere” ed era lì fin dall'inizio. Se lei trionfa, è perché lei arriva dove nessuno spin doctor può arrivare, in questo film dove molti, risibilmente, si affannano a controllare la propria immagine e quella dei propri clienti. Lei capisce, cioè, che l'apparenza non mente mai. Possono mentire le persone (e lei stessa ha scelto di indulgere nella banale simulazione, in una fase acerba della propria macchinazione), ma l'apparenza non mente mai. Non mente mai, proprio perché non dice nulla. Non dicendoci nulla (come il faccione di Ben Affleck) ci costringe a vedere, in essa, quello che noi vogliamo vedere nostro malgrado. O detto altrimenti, e più hithcockianamente, ci costringe a vedere ciò che lo sguardo dell'Altro vuole che noi vediamo.
Nell’adattare il best seller di Gillian Flynn, con la complicità della sua scrittrice, David Fincher ha reso tutto più lineare, trasformando i diari contrapposti di marito e moglie nella realtà oggettiva di ciò che accade a Nick Dunne e di ciò che la moglie annota su pagina: all’inizio della seconda parte però (con un colpo di scena alla Donna che Visse due Volte, secondo Fincher), rende “oggettive” entrambe le versioni, solo che una è “bugiarda”. D’accordo con la scrittrice, ha posto l’accento su uno solo dei finali offerti dal romanzo e, come ha dichiarato in varie interviste, questo snellimento della struttura ha portato alla luce il tema del narcisismo e la natura sarcastica sulla coppia sposata, facendo della sua versione un La Guerra dei Roses in thriller, fedele a una poetica con propensione al cinismo (cominciando dal tappeto sonoro: apparentemente rilassante ma colmo di suoni inquietanti). Cinema figurativo e di montaggio a parte, nelle dinamiche da giallo è un discreto film di genere, un po’ debole proprio nel finale a effetto, dove non paiono dirimenti le motivazioni con cui Nick Dunne accetta di sostituire una gabbia con un’altra; i personaggi sono interessanti, sia quelli in carne e ossa sia quelli “mediatici”, contro cui l’opera si scaglia per il clamore e la faziosità con cui si fa a pezzi un presunto innocente. Ciò che, da sempre, rende particolare il cinema del regista, però, sono certe vibrazioni anticonvenzionali sottese: il finale citato racconta il matrimonio come amore che si trasforma in odio e che può rinsaldare il proprio legame nella sincerità, per quanto orribile; il personaggio “disturbato” di Rosamund Pike, fantastica nelle espressioni imperscrutabili, ha creato un altro sé più efficace nei libri per l’infanzia e continua a cercare la perfezione dell’apparenza anche nella vita reale che le sfugge. Arduo capire se il suo vero sé è quello dimesso e imbronciato quando è in fuga o quello finale, dove finalmente ha qualcuno cui rivelarsi. I suoi “compagni” vogliono essere all’altezza del personaggio che lei inscena per loro, quindi il film fa anche riflettere (non così bene) sulla vita quale recita globalizzata. Del “baraccone” fanno parte anche i media, la polizia e quella giustizia che, di fronte alla verità, non può far nulla per cambiare i “casi già chiusi” e passati al vaglio dall’opinione pubblica.