
Il libro di Sergio Gatti è suddiviso in sei capitoli snelli ed abbastanza efficaci nella loro articolazione, e costituisce una lettura veloce che fornisce elementi a sufficienza per una buona comprensione del film in questione. Ad una sintetica biofilmografia del regista segue una lunga e dettagliata intervista rilasciata all’autore in più sedute, alcune delle quali – per la verità – tendono a sovrapporsi tematicamente con il risultato di appesantire l’altrimenti interessante e informativo volume. Il vero cuore del libro sono gli ultimi tre capitoli, che Gatti sceglie di far seguire ad una antologia critica che funge da spartiacque ma che, per questa ragione, sembra leggermente sconnessa dalle altre parti. Inoltre, il lavoro pur certosino di compilazione si limita alle recensioni a caldo in diversi paesi, ma trascura – forse per scelta programmatica – il lungo dibattito critico che il film ha provocato in diversi circoli, incluso quello accademico, negli anni successivi alla sua uscita, e al quale nemmeno il sottoscritto è riuscito a sottrarsi [1]. Infatti, Lamerica è un film illustre, sul quale sono stati spesi fiumi di inchiostro proprio a causa della sua natura solenne e delle sue problematiche ambizioni.
Il lavoro analitico si concentra nell’analisi della sceneggiatura originale, del film, e nel confronto con la filmografia di Gianni Amelio, alle quali sono riservate una settantina di pagine. L’intento dell’autore è chiaro fin dalle prime righe dell’introduzione, in cui dichiara di non volersi limitare ad una analisi prettamente testuale, ma di voler fare un passo avanti nell’evoluzione della critica cinematografica e di mirare ad una indagine a largo respiro, che includa materiali extratestuali da fonti diverse e che permetta di capire il film nel contesto politico e socioculturale che lo ha circondato durante la lavorazione, l’uscita, e la ricezione critica. Infatti, Gatti ci fa venire l’acquolina in bocca quando scrive: _x000D_ “Secondariamente, Lamerica può essere osservato anche alla luce del film prodotti in Albania o, più in generale, considerando una tematica ricorrente nel cinema albanese, cioè la rappresentazione degli anni dell’occupazione fascista e quindi dei rapporti con l’Italia” (8)Peccato che la promessa sia disattesa – a meno che quel “secondariamente” non si riferisca ad un libro a venire – perché gli utili ed interessanti riferimenti al cinema albanese sono pochi ed epigrammatici, quasi laconici, ed informano il lettore sul tipo di cinema che veniva prodotto durante gli anni bui del comunismo e del cinema di regime. Maggiore attenzione invece è dedicata alla sceneggiatura in tutte le sue incarnazioni, dalla originale alla desunta; con una cura quasi ossessiva l’autore raccoglie le successive evoluzioni dei personaggi e della trama, lasciandosi a volte tentare da un didatticismo un po’ pedante (“le battute sono sempre precedute dal nome del personaggio che le pronuncia scritto in caratteri maiuscoli”, 138).
L’interesse di Gatti per la narrazione è evidente anche nel capitolo successivo, che si apre con un’altra dettagliata sinossi del film – a questo punto impossibile da dimenticare – e che si sviluppa in una trentina di pagine che ripercorrono il film scrutandolo da vicino, reinserendosi quindi brevemente nella tradizione dell’analisi testuale che l’autore aveva, giustamente, ritenuto insufficiente per la comprensione di un film controverso come Lamerica. Ad ogni modo, la vicinanza dell’analisi con la successione cronologica di sequenze ed eventi nel testo che analizza – per quanto criticamente rigorosa – ne appesantisce la lettura facendola sembrare solo l’ennesima rispolverata alla trama. Più originale è sicuramente l’ultimo capitolo, in cui Gatti evidenzia le somiglianze tematiche e strutturali del film in questione e quello immediatamente precedente girato dal regista, spingendosi fino ad intitolarne una sezione “Il ladro di bambini e Lamerica: un dittico” (180), una mossa critica che, se non interamente convincente, almeno dimostra l’ammirabile volontà di affermare una posizione decisa e di svolgerne i risvolti analitici con convinzione. _x000D_In conclusione, il libro di Sergio Gatti è interessante e si legge velocemente – sicuramente un pregio nel panorama della critica cinematografica italiana, che sembra provare un sottile piacere sadico-intellettuale a far impantanare i suoi lettori in frasi subordinate e paragrafi lunghissimi. Tuttavia, anche questo volume non utilizza apparati teorici contemporanei e non si scosta sufficientemente dalla tradizione, mancanza che continua ad essere il tallone d’Achille degli studiosi nostrani e che, forse per coincidenza, fa da coro all’atteggiamento anacronistico di gran parte del cinema Italiano contemporaneo.[1] Zambenedetti, A. (2006), ‘Multiculturalism in New Italian Cinema’, Studies in European Cinema 3:2, pp.105-116.