BIENNALE CHANNEL, Drammatico

LAILA IN HAIFA

Titolo OriginaleLaila in Haifa
NazioneIsraele
Anno Produzione2020
Durata99'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Una notte in un locale notturno di Haifa. Cinque donne e gli uomini che ruotano intorno.

RECENSIONI

Laila ad Haifa. Ma attenzione: Laila in arabo significa “Notte”. Notte ad Haifa. In questa città, in un locale che, per amor di contrasto, sorge a fianco di una ferrovia, si ritrovano persone: donne e uomini, israeliani e palestinesi. Dentro ci sono storie principali e secondarie. Dentro sbocciano amori, si consumano tradimenti, si giocano rapporti di forza. Come quelli di un ricco mecenate (“Possiede mezza Haifa”) che finanzia l'esposizione della bella moglie Laila, la quale lo tradisce con un fotografo. Ma è ancora possibile fare politica attraverso l’arte? Si può imprimere la sofferenza dei palestinesi e il sopruso degli israeliani? Laila ci prova, si propone, mentre intorno a lei fioriscono amori frivoli, il suo compreso, storie di una notte, comportamenti leggeri. E si forma la domanda fondamentale: cos’è la politica oggi per Gitai? Il cineasta, dopo i film frontali sulla questione palestinese, anche gli ultimi, anche Ana Arabia col suo cristallino piano sequenza e Rabin, The Last Day con la sua Storia che tracima nell'oggi, cambia strada e ne prende una laterale. Gitai chiude la questione dentro un locale. Qui vive un melodramma che confina con la telenovela, passando per figure centrali (tre donne) e schegge periferiche, come la coppia gay o il transessuale e il suo appuntamento al buio: quello che avviene è evidente, a tratti quasi sciocco. Fra voltafaccia, prendersi e lasciarsi, velleità di artista e derive grottesche (il dialogo amichevole tra marito e amante), siamo nella zona del bacio furtivo dietro l’angolo, del bicchiere di troppo, dell’automatismo melò. Ed è una zona politica. Non è un caso che il regista compia il progetto a metà tra A Tramway in Jerusalem del 2018, che racchiudeva la complessità dentro un tram, e la prossima per lui fondamentale pièce Interior Exiles, sugli artisti scomodi allontanati dai loro paesi. Insomma Gitai non si è mai mosso da se stesso. Oggi sembra dire: con l’ipotesi della convivenza ormai in un cul de sac, con la soluzione del “problema” impossibile, perché allora non affidarsi al frivolo? Perché non andare tutti a bere insieme? Perché non fare politica col film in una stanza? Così, attraverso sontuosi piani sequenza che attraversano i muri, negando la fisica, Gitai spia questa piccola giostra e la colloca su un piano ideale, non quello della realtà ma dell’utopia. Il suo occhio entra nel club e registra minuzie, piccolezze: cosa ci aspettiamo da un locale notturno? Israeliani e palestinesi ballano insieme, litigano, si baciano: l’ipotesi di convivenza non passa più per la macro-politica ma per la loro idiozia, per gli stereotipi, per i dialoghi scontati: “Sembra Muccino”, diceva qualcuno alla fine della proiezione veneziana, non avendo capito né l'uno né l'altro. E invece no. Non sottovalutare Laila in Haifa: non è meno politico dei capolavori di Gitai.