Commedia

L’ABBUFFATA

TRAMA

Tutti sognano il cinema. E nel bellissimo borgo di Diamante, in Calabria, un gruppo di quattro giovani amici ha finalmente il coraggio di girare un film e, così, di sconvolgere la vita della cittadina._x000D_

RECENSIONI

Buonasera, è il mio film più bello. 
Nanni Moretti – Sogni d’oro


L’abbuffata
 è il film di un regista, Mimmo Calopresti, reduce dallo straordinariamente brutto La felicità non costa niente, che, tornato nella sua Calabria, riflette sulle sue origini e vi si confronta: lo fa con un lavoro tratto da un soggetto dello sceneggiatore iraniano Mahmoud Iden, dettato dal demone della nostalgia, composto nella forma della commedia, interpretato da attori di professione che interpretano persone comuni in un contesto popolato da persone comuni nel ruolo di se stesse (è lo stesso canone del film che i giovani protagonisti vogliono girare: la pellicola gioca su questi riflessi per tutta la sua durata); dunque, tanto per ricapitolare, L’abbuffata non è un mockumentary ma un film di finzione sulla lavorazione di un mockumentaryo su qualcosa che gli somiglia molto e che costituisce il paradigma/tipo cui il film al quale stiamo assistendo si ispira. L’autore dunque gioca molto con i livelli, mutando il punto di vista spesso e volentieri, gli sguardi compattandosi nella scena finale dell’abbuffata in cui l’alternanza dei registri (oggettivo/soggettivo: telecamera che documenta/ mdp diegetica) diventa programmatica e pienamente disvelatrice del meccanismo.
Il riferimento cardine, anch’esso dichiarato (la pubblica proiezione), è il Fellini di  (c’è il regista in crisi, c’è il film da fare, ci sono personaggi e attori che si confondono, c’è l’autoreferenzialità – Valeria Bruni Tedeschi-Amélie nella parte dell’ex dell’attore interpretato dallo stesso Calopresti -, c’è una sorta di girotondo che è la tavolata del citato finale) ma anche di Intervista e Ginger e Fred (la puntata a Cinecittà, la ricerca di figure e figurine e la visione sulla deteriore televisione – il reality show, ovviamente/banalmente -). Si sprecano riflessioni sul cinema, robe trite e ritrite, che scaturiscono dal dialogo tra il regista in crisi Abatantuono, figura tremenda a ogni livello, che costituisce una sorta di coro disilluso, simbolo dello stato d’animo dell’autore, della stasi, del ripensamento e del ritorno alle radici che il film stesso (L’abbuffata, dico) raffigurerebbe e i tre giovani cineasti in erba, che invece rappresentano la magia del cinema che tutto trasfigura, una magia che contagia un’intera comunità, pronta a farsene travolgere.
Calopresti, nell’ossequio di base della poetica autoriflessiva propria del cinema iraniano, di cui il soggetto è esempio eclatante, si rifà anche a Moretti (regista-attore-carattere e un occhio a Sogni d’oro) e torna a recitare (da cani – sapendolo, peraltro -) in un film nel quale si bea contemplandosi: peccato che quello di Moretti sia, piaccia o meno, un discorso personale (e fatto di ben altra personalità), di originale ossessività e che, imperniato (e, quando riuscito, non ripiegato) su se stesso, diventa segno e specchio dei tempi, un’opera che ha non solo uno spessore, ma soprattutto un senso e una strategia di fondo ben individuata, una strategia che è fatta, più che di puro cinema, di azione/reazione cinematografica, e che quello di Calopresti sia invece un procedimento masturbatorio privo di qualsiasi sostanza, senza stile e senza grazia, gratuito e vuotamente compiaciuto. L’autore costruisce dunque una struttura, mutuandola dai detti, nobili modelli, e non si preoccupa/non sa/non può riempirla di alcunché: ecco allora il film girare letteralmente a vuoto come i suoi protagonisti (la trasferta romana è di scrittura dilettantesca), tra vacuo chiacchiericcio, personaggini lanciati letteralmente nel calderone (il professore interpretato da Frassica, una Finocchiaro sprecatissima…) e lasciati lì a galleggiarvi, spunti di stanca comicità, calcolati tormentoni (le battute di Frassica in inglese), presuntuoso incrociarsi di realtà e finzione (l’arrivo di Depardieu che interpreterà il personaggio maschile del film che si girerà, trattato come la star che è, ma anche come il personaggio che interpreterà, un compaesano emigrato in America) e appiccicaticce considerazioni sui tempi (orrido e distorto morettismo di ritorno: Depardieu che schiatta di fronte alla televisione in cui si susseguono immagini di Berlusconi, Bush, Putin etc). Non pago, Calopresti chiude con un vento felliniano che diventa iperbole e parodia e, improvvisamente impetuoso, spazza via tutto.