Drammatico

LA VITA SEGRETA DELLE PAROLE

Titolo OriginaleLa Vida Secreta de las Palabras
NazioneSpagna
Anno Produzione2005
Durata112'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

Hanna Amiran, operaia sorda e schiva, è un’autentica stakanovista: in quattro anni di lavoro non ha mai preso un giorno di ferie o di malattia, né è mai arrivata in ritardo. Il direttore dell’impresa, pungolato dalla commissione sindacale e preoccupato da questa disturbante regolarità, la esorta a farsi un mese di vacanza. Hanna accetta suo malgrado ma, non appena si presenta l’occasione, si offre come infermiera per due settimane su una piattaforma petrolifera. Dovrà assistere Josef, un uomo ustionatosi pesantemente in un incidente durante una perforazione del fondo._x000D_

RECENSIONI

Inizia bene il film della Coixet, con una protagonista muta sul filo dell’autismo, autenticamente disperata, cullata da una voce off indefinibile (esagerando è stato citato Kaurismaki); la sua algida persona e l’insistita quotidianità in una manciata di minuti ghiacciano lo spettatore, complice la brulla interpretazione di Sarah Polley. Quando sulla piattaforma petrolifera, dopo aver azzardato il saporito nonsense (il personaggio dell’oca), Hanna incontra Joseph allora la pellicola chiarisce dove vuole andare a parare, e sono dolori. Il rapporto medico-paziente è di per sé argomento delicatissimo, una minima sbavatura di scrittura può sforare nel ridicolo: qui ne troviamo parecchie. Tra la facile metafora (lui non può vedere) ed il suo corrispettivo (lei non può sentire) si naviga nella sciatta narrazione infantile, segreti inconfessabili annegati in un mare di lacrime, certi tocchi trash da risata a crepapelle (lui che palpeggia lei, tastando un campo di battaglia). La mano della regista diventa pesantissima: inutili e banali i personaggi di contorno (indegna la macchietta culinaria di Camara, anche Ozpetek saprebbe fare meglio), il film si fa inverosimile e presto irrisorio quando azzarda l’alibi del messaggio sociale; la sequenza finale, in cui Tim Robbins promette di imparare a nuotare, sarebbe un simpatico scherzo con il difetto che non fa ridere. Affatto.

Opera seconda della regista del sopravvalutato La mia vita senza me, protégée dei fratelli Almodovar, La vita segreta delle parole è, a dispetto del titolo altisonante, un onesto melodramma di denuncia, ben recitato, ben scritto, sulle verità nascoste, sulle ferite del corpo e della psiche, sulla messa a nudo di sé e sulla necessità di aprirsi all’altro. Sebbene la regista conceda troppo, specie nella prima parte, al macchiettismo, stando dietro a personaggi che si compiacciono della loro condizione di freaks isolati, riesce a rendere credibile l’evoluzione del rapporto tra la protagonista Sarah Polley (straordinaria) e Tim Robbins, in un crescendo amoroso che raggiunge l’acmé al momento della confessione notturna, un intenso, lungo resoconto crudele di una giovinezza violata che rifugge il patetismo ed il ricatto morale.

Dopo il discontinuo e struggente La mia vita senza me, Isabel Coixet prosegue la sua riflessione sul dolore come momento di conoscenza di sé con questo La vita segreta delle parole, film-scandaglio che scava con toccante pudore e tagliente ostinazione nelle ferite psichiche e fisiche di due individui traumatizzati da avvenimenti tragici. Nel tentativo di salvare il suo migliore amico in un incidente su una piattaforma petrolifera, Josef (un Tim Robbins perfettamente in parte) riporta ustioni su tutto il corpo e subisce lesioni alle cornee che gli procurano una cecità temporanea. Le cicatrici di Hanna (una Sarah Polley credibilmente contratta), invece, sembrano soltanto interiori. Apparentemente integra dal punto di vista fisico, anche se audiolesa, la donna conduce una vita scandita da rituali ossessivi: il lavoro vissuto come attività automatica e antidepressiva, la rigorosa monotonia alimentare, l’uso di una saponetta nuova ad ogni lavaggio di mani. E una presenza fantasmatica che si manifesta come voce di una bambina pronunciante monologhi di desolata, perturbante tenerezza. Tra Hanna e Josef, impalpabilmente, nasce qualcosa: una corrente emotiva che si trasforma presto in bisogno di condivisione e necessità di contatto fisico, ma troppo ostacolata e disturbata per sfociare liberamente in sentimento amoroso. Una tensione erotica costantemente insidiata dalla presenza del dolore e della morte.
Nella descrizione del rapporto tra i due non mancano certo cadute di tono e veri e propri spropositi di scrittura: cercando l’intensità a tutti i costi la Coixet, anche sceneggiatrice, lambisce spesso i bordi dell’imbarazzante, scivolando più di una volta nel comico involontario (non soltanto la battuta finale di Josef, ma anche il primo incontro tra i due, il tormentone di Cora e la figura dell’oceanografo sono decisamente a rischio). In realtà è l’intera struttura drammaturgica ad essere intrisa di elementi ridicolizzabili: le pause pensose dei dialoghi, l’alta solitudine dei personaggi e il trattamento “audiogastronomico” del tema culinario tradiscono un’enfasi difficilmente recuperabile. Ma dove la Coixet sfodera un talento indiscutibile e una padronanza stilistica davvero squisita, riscattando ampiamente i limiti di sceneggiatura, è nella conduzione dello sguardo: manovrata direttamente da lei, una camera a spalla sensibilissima interpreta dinamicamente le situazioni narrative, traducendo in pura motilità le vibrazioni del non detto, captando prontamente le sottili scosse emotive e aprendo la visione a campo di tensioni drammatiche. Apertura che permette alla regista e scrittrice catalana di allargare l’orizzonte ottico all’osservazione "immersiva" dell’ambiente, culminante in una serie di quadri in movimento accompagnati da brani musicali di lancinante intensità (Pour vous aimer, Juliette Greco; Hope there’s someone, Antony and the Johnsons; All the world is green, Tom Waits). Agghiacciante il monologo di Inge (Julie Christie), la psicologa di Hanna, nell’archivio dei sopravvissuti alla guerra nei Balcani. Sui titoli di coda, leggera e dilaniante, Tiny Apocalypse di David Byrne.