TRAMA
Un racconto di formazione di un ragazzo che attraversa i traumi e i dolori fino in fondo, spingendosi a cercare la morte, per poi arrivare alla rinascita. Un percorso in un mondo allucinato nella sua vita e nella sua visione alterata. Il suo poeta preferito, al quale si ispira, ha scelto la morte, mentre lui trova la forza di sopravvivere e raccontare questa vita oscena.
RECENSIONI
Ora di pranzo. Sono arrivata da poco al Lido e vedo che da lì a qualche ora ci sarà la proiezione di La Vita Oscena di Renato De Maria, tratto dall'omonimo romanzo di Aldo Nove. Non so bene cosa fare, tuttavia mi torna in mente il momento in cui comprai Woobinda e lessi: «ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal». Non era solo il Pure and Vegetal ad essere assurdo ma anche quel linguaggio che, nella sua forma migliore, costringeva all'immobilità di una realtà fatta di poche cose essenziali, il bar, le diete, la televisione e gli stipendi da poco. Tuttavia, se in questo senso Woobinda funziona per sottrazione, La Vita Oscena ne riprende la traiettoria raccontando la vicenda personale dell'autore. Lontano dalla tragica e testarda ricerca di un'identità romanzesca che costringe la maggior parte degli scrittori italiani a costruire un contesto intorno a un io posticcio (quella pratica drammaticamente inflazionata che conosciamo con il nome di autofiction), Nove cerca una voce, uno stile. In effetti, il protagonista di La Vita Oscena non è il ragazzino irrequieto che perde entrambi i genitori, bensì una lingua che fatica a rappresentare il mondo. Una lingua che deve rappresentare l'irrappresentabile. Più che alla psicologia o al dolore autobiografico, l'autore lascia lo spazio a una scrittura che prende le mosse da un segno, piuttosto che dal ragionamento mentale, cancellando così ogni possibilità di comprendere uno scenario una vita che lascia gli interrogativi scoperti, ostinata nell'impossibilità di trovare alternative, oscena perché immonda e ripugnante «tanto da costituire quasi unoffesa al senso del pudore».
Il film di De Maria è ben altro e sono proprio queste questioni a rendere il lavoro di trattamento cinematografico, un'opera fallimentare. Costruito sulla presenza esasperante del voice-over, La Vita Oscena si mette alla ricerca del tessuto logico, delle preposizioni che collegano le immagini, le frasi e le parole dando vita a due piani differenti di significato, quello dell'immagine da un lato e quello della parola dall'altro. Se nell'immagine realtà e finzione convivono nella stessa maniera, De Maria non si risparmia neanche dal punto di vista formale facendo del vortice caotico il modo migliore per raccontare la vita sgangherata di Andrea-Nove. E così oltre al consueto pedinamento con macchina a mano tipico di un certo tipo di cinema italiano contemporaneo, il regista ci costringe al ralenti e all'accelerazione, al sonoro difettato, all'immagine confusa (si pensi alle sequenze in discoteca) che più che rimandare a una rappresentazione sofisticata, direzionano lo spettatore verso la falsificazione più volgare. Attraverso la parola invece il segno letterario, privo di una grammatica e spogliato dal principio d'individuazione, viene coattamente stravolto in immagine ruffiana dai toni grotteschi o - alla peggio - involontariamente ridicoli: tralasciando la spirale della droga e del sesso a pagamento, il film si riempie di sovrastrutture inutili e ridondanti (la finta scena del delitto con la forma del cadavere costruita con la cocaina, le lingue blu, le teste di elefanti, un certo gusto per il porno, l'infermiera sexy...) destinate a trasformare il racconto in un materiale grezzo e privo di forma e margine. Se è proprio attraverso il registro dell'impersonale che Aldo Nove riesce a parlare di sé, De Maria snatura la forma del racconto cucendole addosso un vizio di forma degno della peggior televisione.
