Biografico, Drammatico, Recensione

LA VITA NASCOSTA

TRAMA

La storia dell’austriaco Franz Jägerstätter, obiettore di coscienza, che si rifiutò di combattere per i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e finì per essere giustiziato nel 1943.

RECENSIONI

Gli ultimi quattro film di Terrence Malick possono essere facilmente suddivisi in due filoni: uno “heideggeriano”, rappresentato da The Tree of Life e da quella sua chiosa a margine che era Knight of Cups, l’altro invece “cattolico”, con To the Wonder e quella sua chiosa a margine che era Song to Song. A Hidden Life (titolo dagli echi evidentemente autobiografici) tenta innanzitutto di essere una sintesi tra questi due filoni. Dietro la storia di Franz Jägerstätter, contadino del villaggio austriaco di Radegund che rinunciò a combattere per i nazisti e fu per questo giustiziato nel 1943, c’è infatti non solo una plateale imitatio Christi, con tanto di martirio preferito al benché minimo cenno di assenso (anche solo meramente formale) verso “l’Impero”, ma anche una parabola sull’heideggeriana fascinazione per l’autenticità delle comunità premoderne, e sull’ambiguo rapporto tra questa fascinazione e il nazismo. Il film comincia con un ritratto idilliaco della vita sulle montagne vissuta da Franz e dalla moglie Franziska, compiuto con i consueti svolazzi della macchina da presa e con i consueti stacchi di montaggio a 360 gradi, che a ogni taglio riaprono il mondo là dove non ce lo aspettavamo, o magari sostituiscono i raccordi sull’asse con il continuo ribaltamento reciproco tra stasi e movimento (uno dei paradigmi principali del montaggio malickiano, quando non è impegnato a inventarsi imprevedibili cambi di angolazione, e suscettibile naturalmente di numerose variazioni formali, è: avvicinamento o allontanamento della macchina da presa accompagnato dal passaggio della mdp da statica a mobile o viceversa e/o, simmetricamente, dei personaggi da mobili a statici o viceversa). Poi, però, arriva puntuale la caduta; ma laddove la retorica nazista predica un ritorno alla comunità organica premoderna attraverso la liberazione dall’elemento estraneo perturbatore, in A Hidden Life l’elemento perturbatore che caccia la coppia dal paradiso terrestre è invece proprio il nazismo. In questo modo, è il nazismo a ricoprire quella funzione di dissoluzione del legame organico che in genere è associata alla modernità; anzi, Malick sembra decisamente flirtare con l’idea, tutt’altro che priva di ascendenze heideggeriane, che nazismo e modernità siano sovrapponibili.

Vertiginosamente, tuttavia, Malick si guarda bene dal contrapporre frontalmente i coniugi Jägerstätter e il nazismo in quanto facente funzione della modernità. Sono celebri le immagini di Hitler immerso nell’idillio bucolico di Berchtesgaden, e Malick non manca di includerle nel suo film, sapendo bene che ne sarebbe risultato un inevitabile e inquietante parallelo con l’idillio bucolico di Radegund. Ma c’è di più. Nei primissimi minuti, A Hidden Life ci mostra l’innamoramento tra Frank e Franziska a seguito dell’ingresso, da parte di lui, su di una motocicletta (sulla quale torneremo). La modernità, insomma, da un lato è parte integrante dell’idillio, ma dal lato lo dissolve “in quanto nazismo”. Non ci si deve, tuttavia, confondere. Se Malick si concede questa zona grigia in cui i confini tra il paradiso premoderno degli Jägerstätter e il nazismo sfumano, è solo per poter avere uno sfondo su cui tracciare la distinzione con tanta più nettezza. La differenza, in buona sostanza, è questa: la magia del vivere a contatto con la terra e come parte di essa (e Malick non esita già dalle primissime immagini a mostrarci le mani dei coniugi intrecciarsi dentro la terra stessa, lavorandola), il nazismo la difende nel modo sbagliato, ovvero difendendola, mentre Jägerstätter la difende perdendola, o meglio accettando di perderla, gettando la moglie stessa nella solitudine e nella (direbbe Heidegger) inautenticità. Perché è l’unico modo, questo, per conservare ciò che la terra ha di più essenziale, ovvero il continuo mutare per aprirsi ad ogni momento in ciò che fino a un istante prima non era nemmeno pensabile – ciò che appunto Malick rincorre col suo montaggio pluridirezionale che continuamente spiazza la sensazione di “stare lì” che la steadycam non cessa di ricostruire ad ogni frattura. Ed è in questo salvataggio del contatto con la terra perdendolo, che si innesta la dialettica cristiana del sacrificio. Ma non solo. Con questa perdita, Franz dà corpo a una modernità alternativa, che scorre “dentro” la modernità heideggerianamente compiuta in nazismo, e che è a propria volta inseparabile dalla reinvenzione non solo di un protestantesimo mai esistito, ma anche di un nuovo rapporto tra esso e il cattolicesimo: è a questa riconfigurazione che finisce per votarsi Franz, cattolico che rifiuta le direttive della chiesa perché sa che la verità è dentro di lui, e non ha dunque che da esserle fedele fino in fondo rifiutando i compromessi che annichiliscono la chiesa. Ed è sempre in questa chiave che va letto l’incontro tra Franz e un pittore altamente disilluso sull’inadeguatezza delle immagini sacre che sta egli stesso producendo, buone al massimo per dare ai fedeli una convinzione, falsa perché esteriore, di camminare sul sentiero giusto: Cristo non lo si può dipingere, perché si può solo esserlo, ed è questo ciò che istintivamente si troverà a fare Franz, più pittore del più fedele dei pittori, e che in nome del protestante arbitrio individuale si libera dell’individualità stessa per essere una replica di Cristo, meta-soggetto moderno per eccellenza.

Non si sottolineerà mai abbastanza, infatti, che è la modernità a essere in questione in A Hidden Life, e lo è dall’interno stesso dell’idillio premoderno anziché in contrapposizione ad esso. Di nuovo: Franziska si innamora quando Franz irrompe nel villaggio in motocicletta. E Malick ce lo mostra soffermandosi molto a lungo sul movimento rettilineo in avanti – movimento che si riproporrà in forma identica come flashback appena prima dell’esecuzione finale, e in forme appena variate in un gran numero di altri momenti del film: Franz sogna un treno che corre con movimento rettilineo in avanti, e tale movimento lo ritroverà quando sarà costretto a prendere un treno vero, e ancora a Berlino, vista attraverso dei camera car e mai con gli usuali svolazzi malickiani (perché è appunto uno spazio urbano, e non rurale). Rettilinei in avanti sono anche i frequenti carrelli che scorrono lenti nei sinistri corridoi della prigione: insomma, quel movimento, che è anche graficamente l’esatto contrario degli svolazzi malickiani perché àncora lo sguardo a una direzione lineare e irreversibile, è associato alla modernità e alla morte (il cui rapporto reciproco viene elevato a sistema dal nazismo). Rima interna assolutamente inedita (ad eccezione di alcuni accenni embionali in Knight of Cups) nella tessitura malickiana, ma anche assolutamente indispensabile: è lo sfondo negativo che di converso rende possibile la regia “aerea” del resto del film, così come la santità è resa possibile dal martirio. Essere fedeli all’unità organica è possibile solo attraverso la frammentazione, che come al solito la regia di Malick ricerca senza posa: solo, in altre parole, riducendo il vissuto a polvere aleatoria e inconsistente, tanto i momenti di estasi quanto quelli di sofferenza. Lo spazio filmico malickiano, mai così complesso (stretto ed imploso tra montaggio a “n” dimensioni, rima interna della rettilineità, e continui rimandi alla contrapposizione verticale alto-basso, ovvero cielo-terra) costruisce un movimento che travolge questa polvere, la porta con sé e la disperde, un movimento più forte della divisione, lacerante, tra il carcere abitato da Franz e il villaggio abitato (nel disprezzo dei farisei) da Franziska, più veloce della distanza abissale tra l’uno e l’altro, distanza esacerbata dalle voci over che ripropongono le lettere scritte tra i due coniugi. Un movimento, questo, costruito filmicamente per dare corpo alla forza invisibile dell’incudine, non meno attiva di quella del martello pur nella sua apparente passività, secondo la metafora religiosa che una delle voci over opportunamente rispolvera. È la forza passiva, più forte dei nessi causali e di qualunque strategia strumentale, che orienta l’agire assoluto di Franz, l’unica forma di fedeltà possibile alla terra, al di là delle mistificazioni naziste.