TRAMA
Messico, anni Quaranta. Ignacio detto “il Mikado” è un cameriere taciturno che passa le sue giornate tra il caffé Ofelia dove lavora e le foto pornografiche che colleziona. L’incontro con la prostituta Lola cambierà la sua vita.
RECENSIONI
"El Mikado" ovvero Ignacio Jurado, Nacho è cameriere al caffè Ofelia, meticcio insultato dal padrone banderuola (sfruttatore poi comunista, autoctono poi spagnolo), ha una certa passione feticista per gli indumenti femminili ed è facile preda per Lola, prostituta o forse altro, spagnola o forse no: si instaura una relazione sadomasochistica che coinvolge non solo i due poveracci ma un'intera cultura. L'ultimo film di Arturo Ripstein un inno al cinema ed al demonio: un'infilata di piani sequenza magistrali avvitano un nucleo di avvenimenti che si ripetono, si ripresentano e mutano aspetto in pochissimi ambienti. L'interno del caffè, la galleria in cui questo si trova, un paio di locali adiacenti, le strade notturne sono solo il set per il mettersi in scena di una passione smodata e priva di senso, significato e direzione sono elementi insignificanti nel costruirsi di un granitico quadro che rende conto e ceca di fronteggiare decine di temi. Se la condizione umana ed il perenne turbamento di Nacho sono il centro di questo vorticare, proprio attorno ad esso si agitano le forze di un secolo intero, dalle rivoluzioni comuniste, alla guerra civile spagnola, al problema degli espatriati, alla fotografia, all'educazione degli indios, al rapporto tra culture al sesso come schiavitù agognata, al cinema come somma di umano e culturale. "La Virgen de la Lujuria" è letteralmente un tutto immaneggiabile in cui si confondono personaggi e ambiente il cui unico scopo è quello di presentarsi non solo, certo, come sfoggio di abilità tecnica ed attoriale ma come complesso irriducibile, apocalittico quanto claustrofobico collage di evidenze e teorie. Nacho è vittima della propria pochezza, dei sogni che lo vedono "El Mikado", lottatore senza paura, ed anche ingranaggio fondamentale di un meccanismo che non serve a nulla: la vita nella complessità che lega politica ed etica eroe vicinissimo al Joao de Deus della trilogia di Joao Cesar Monteiro, l'altra faccia dello specchio, sempre trattati plurimamente stratificati, dal vago sentore medievale ma se quest'ultimo vede la fuga gioiosa nel sapere come rifugio alla cancrena, Ripstein ritaglia la stasi come autogiustificante. Funereo e pessimista quanto dorata cattedrale per l'occhio.
L’incipit del film di Ripstein è un vero vortice di colori e musica, che introduce i personaggi investendo gli spettatori, mimando un trailer di cinquant’anni fa e lasciandoli con l’acquolina in bocca, pronti a pregustare le primizie che seguiranno. Inevitabilmente, il ritmo rallenta, e l’agrodolce vicenda si snoda in una successione di lunghi piano-sequenza; la macchina da presa danza fra gli attori con grande eleganza, seguendoli nei loro numerosi movimenti senza mai esagerare i propri, contenendosi entro i limiti della descrizione e senza spettacolarizzare mai. Il risultato è morbido e piacevolissimo, anche grazie ad una fotografia deliziosa come un mango maturo. I colori dominanti sono il giallo e il verde, usati in varie tonalità non solo nel décor, ma soprattutto nella bellissima illuminazione. Grande prova anche per i due bravissimi protagonisti, che si cuciono addosso due personaggi stilizzati ed essenziali, distillati come i liquori mesciti nel Caffè Ofelia, di diversa qualità a seconda della clientela. Ma l’amour fou è ovviamente destinato a grandi epiloghi, e l’uccisione di Franco sembra in questo caso adeguata. In un film in cui tutto è artificio, anche l’eccellente attentato diventa sciarada, riproduzione, finzione, come le fotografie su cui Nacho puntualmente si masturba, filtrando i suoi piaceri attraverso un guanto di pizzo nero, carezzandosi, lavorando, nutrendosi attraverso di esso. Ed eccoci arrivati all’excipit, una chiusa che riprende il folgorante inizio con una verve decisamente smorzata, in un bianco e nero brillante e fumoso, con le stesse sovrimpressioni, ma con oltre due ore di film sulle spalle. Quindi, la pur pregevolissima fattura di questa bella prova d’autore, soffre una scrittura sovrabbondante e un po’ inconsistente. La carica delle immagini a volte non è ricambiata da situazioni sufficientemente intense, e questo sbilanciamento si evidenzia nel finale, che va a chiudere un gioco non ancora/abbastanza svelato. Fermo restando che un mango dolce e sugoso non si rifiuta mai…
Lussuria concettuale
Quello di Ripstein è soprattutto un saggio di grande maestria registica: tutti piani sequenza funambolici per raccontare una storia di solitudine e passione, cervellotica e verbosa com'è nel costume del cineasta messicano. Il film si apre con una sorta di delizioso trailer d'epoca che illustra la vicenda e presenta i personaggi, escamotage che verrà riutilizzato per chiudere i conti al termine del film. Nulla è possibile obiettare tecnicamente: fotografia satura e ambrata, con frequenti e deliziosi squarci verdi, scenografia originale, direzione d'attori impeccabile. Il film, tratto liberamente da Max Aub, girato tutto in interni, procede per siparietti di un erotismo tutto di testa, mai esplicito eppure trasudante. Purtroppo il racconto dell'ossessione del protagonista è evidentemente troppo lungo, il film ci gira intorno fino allo sfinimento pur alternandolo ad altri motivi (primo fra tutti quello politico che si esalta nel sogno metafilmico dell'assassinio di Franco, uno dei momenti più riusciti della pellicola). Il risultato alla fine, nel suo barocchismo visivo e concettuale, affascina e strema.