TRAMA
Durante la visita annuale della corte imperiale di Kyoto nel palazzo dello shogun di Edo (usanza adottata in epoca Tokugawa, 1603-1868) per celebrare le festività di fine anno, il daimyô Asano Naganori, dopo le offese pronunciate dal maestro cerimoniere Kira nei confronti del suo operato, sguaina la spada e lo colpisce alle spalle senza riuscire ad ucciderlo. Considerato l’atto un vero e proprio affronto nei confronti dello shogun di cui era in rappresentanza e dello stesso imperatore, viene ordinato ad Asano di fare seppuku. Due anni dopo 47 dei suoi vassalli mostrano assoluta fedeltà vendicando la sua morte con l’uccisione di Kira e facendo a loro volta seppuku.
RECENSIONI
Il celebre episodio del Chûshingura è uno dei luoghi più frequentati e conosciuti della letteratura e del teatro giapponese che vanta numerose riedizioni (più o meno apocrife) attraverso le diverse epoche e svariati adattamenti cinematografici. Quello mizoguciano si inserisce in un contesto storico particolarmente importante poiché il regista incomincia le riprese de La vendetta dei 47 ronin nel 1941, in pieno clima bellico. Se da una parte il governo nipponico si dimostra decisamente attento al jidaigeki (film in costume), per l’evidente vicinanza nazionalistica dei temi, dall’altra esibisce una forma di controllo esasperato degli stessi affinché non si ottenga un effetto indesiderato e opposto alle intenzioni. La Shôchiku, casa di produzione fino ad allora abbastanza sganciata da certe logiche nazionali, decide di allinearsi su un fronte estetico e politico comune, fondando una sua costola produttiva per l’occasione, la Koa Eiga (che fallirà nell’intento a causa dell’enorme esborso per i costi realizzativi, rifondendosi con la casa madre), e intimando a Mizoguchi la realizzazione del film. Mizoguchi dal canto suo, divenuto oramai un’autorità in ambito cinematografico, pone due condizioni precise: che si prenda come testo di riferimento la versione teatrale del Chûshingura firmata nel 1934 da Mayama Seika (riadattata dal fido sceneggiatore Yoda Yoshikata e da Hara Kenichirô) e che il corpo attoriale sia il medesimo della compagnia Zenshin-za che lo aveva portato in scena.
Nonostante gli intenti della Shôchiku andassero nella direzione di una pellicola ad alto impatto spettacolare, Mizoguchi riesce sorprendentemente a fare del Genroku chûshingura un sublime paradigma di anti-spettacolarità deprivando il film non già di azione ma di scontro, di urto violento fra corpi, di materia (presupposto invece tipico del genere jidaigeki). Ne scaturisce un’opera “filosofica”, di sottile meditazione, di gestualità simbolica che piacque inaspettatamente ai dirigenti Shôchiku ma scontentò, almeno in quel delicato momento storico, sia critica che pubblico (7° film nella classifica degli incassi in Giappone del ’42, a dispetto della mega-produzione).
L’intero film origina quasi hegelianamente dall’apparente tranquillità di un vuoto. La m.d.p. collocata in posizione angolare inquadra con ieratica fissità il cortile del palazzo di Asano, dal nulla di un giardino sabbioso si sposta con lentissima movenza verso il porticato. Viene colto obliquamente il maestro cerimoniere Kira mentre lancia i suoi strali polemici nei confronti di Asano, che scopriremo situato a pochi metri di distanza. La sequenza successiva riempie l’iniziale vuoto con un atto di violenza improvvisa e furibonda (il fendente inferto da Asano da tergo, interrotto da uno stacco di macchina). Da quel preciso istante ogni altro atto di violenza ci viene sublimemente negato (famoso l’episodio dell’uccisione di Kira ad opera dei ronin annunciato per lettera dalla dama di compagnia della consorte di Asano, a sottolineare la centralità dell’elemento orale nella cultura letterario-paideitica giapponese), negando contemporaneamente una lunga tradizione di cinema estremamente dinamico e violento, da Ito Daisuke a Gosha Hideo, passando ovviamente per Kurosawa. Il film diviene una graduale austera immersione nell’oscurità e nelle ombre del dubbio e dell’esitazione che abitano la mente di Oishi Kuranosuke, ciambellano di corte e primum inter pares nella schiera dei seguaci del daimyô condannato a fare seppuku. È proprio il gesto estremo come apice della precettistica del bushido che regola la condotta etica dei samurai a fornire una delle chiavi di lettura decisive del testo filmico. La sensazione pervasiva di tutto il film è quella del compiersi di un lungo e ininterrotto (grazie alla tecnica del piano-sequenza, o del long take prolungato) cerimoniale nel quale viene privilegiato il ritualismo gestuale da teatro nô nel quale si esprime il tentativo di penetrare all’interno di un’emotività trattenuta, insondabile, resistente. Alla facilità occidentale del primo piano viene sostituita la distanza del campo lungo (o medio) in maniera tale che lo sguardo dello spettatore sia condotto insieme al movimento faticoso ed estenuante dei carrelli attraverso la contrazione di uno spazio che diventa progressivamente luogo dell’interiorità, in cui nella dilatazione del tempo il non agire e l’esitare di Oishi (incomprensibile agli occhi degli altri vassalli) assume molto più senso dell’atto nemesiaco nella sua esteriorità.
