Drammatico, Recensione

LA VELOCITÀ DELLA LUCE

TRAMA

Due auto si inseguono in autostrada, una voce li accompagna.

RECENSIONI

La velocità della luce è – o vuole essere – un'opera a più livelli. Papini si propone di realizzare un progetto ambizioso in grado di coniugare esistenziale e poliziesco, senza avere le capacità di metterlo in atto; colloca lo spettatore in posizione di assoluta inferiorità cognitiva rispetto ai personaggi che ci vengono presentati giustapponendo frammenti, e non riesce a garantire la coesione narrativa necessaria. Il film è camaleontico: si apre come l'inseguimento di Mario verso Rinaldo per motivi che si capiranno in un secondo momento e che all'inizio paiono oscuri; si trasforma poco dopo in un viaggio senza origine né destinazione che si vuole metafora del naufragio dell'esistenza umana; assume per un attimo la forma della spy story; e si svela alla fine come il piano di un omicidio (prestabilito?). Tema conduttore pare essere quello della paternità: il viaggio è dunque la tensione verso un padre, simbolo dell'Autorità, del Senso che si sente scomparso; riconosciamo allora come strutturale dell'opera un conflitto edipico rovesciato del quale sono facili da rintracciare le dinamiche (il padre che giace con la nuora e uccide il figlio), ma non il senso (se l'Edipo spiega il rapporto tra identità e desiderio, l'anti-Edipo a cosa si riferisce? all'egoismo dell'Autorità che per il proprio perpetuarsi reprime ogni possibile messa in discussione?). Oltre a tutto questo Papini (sovrac)carica il film di molte altre ambiguità: dall'angelo custode che si nasconde in un'operatrice di call-center (simbolo per antonomasia del precariato che, nel suo essere dimensione priva di riferimenti, rimanda alla non-forma del viaggio, di cui si è detto sopra) al misterioso incidente in moto (è causato da Rinaldo?) e alla presunta morte dello stesso Rinaldo. Il regista realizza un'opera enigmatica che trasuda l'influsso di Lynch, citato in abbondanza – le corse in auto di Strade perdute, i paesaggi notturni di Mulholland drive, lo spiare dall'armadio di Velluto blu - ma priva del rigore scientifico del maestro: si disseminano i pezzi di un puzzle e non si danno allo spettatore gli strumenti per provare a ricostruirlo. Infine l'opera sconta una sceneggiatura che si incaglia in errori piccoli (l'indirizzo e-mail dell'operatrice) e grandi (com'è possibile che in un call-center si riescano a rintracciare i movimenti di una carta di credito?), e una poca cura sul piano estetico che rende insopportabili i continui primi piani frontali e sgraziate tutte le scene in macchina. Quello che si apprezza è il tentativo, molto difficile in un paese come il nostro, di realizzare un cinema diverso. Resta inspiegato il titolo.