Horror, Recensione

LA TERRA DEI MORTI VIVENTI

Titolo OriginaleLand of the Dead
NazioneU.S.A./ Canada/Francia
Anno Produzione2005
Genere
Durata93'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La terra è ormai invasa dai morti viventi. I pochi umani sopravissuti si sono barricati in una città in cui i ricchi vivono ai piani alti, i poveri nei bassifondi… ma intanto i morti si organizzano…

RECENSIONI

Il problema maggiore dell'ultimo capitolo della tetra tetralogia dei morti è forse la sua 'convenzionalità'. Romero, infatti, che non ha mai scritto sceneggiature memorabili né è mai stato un gran dialoghista, è sempre stato però un abilissimo creatore di atmosfere che esulano un po' dagli stereotipi horror più classici (e vieti); i tre precedenti film della saga zombica, così come il concetto stesso di 'zombi', generano più angoscia che paura, ossia un malessere meditato e profondo che affonda le sue radici in un solido substrato allegorico e metaforico. Il regista ha sempre visto bene di ripetere, a mo' di 'marchio di fabbrica', una struttura all'angoscia molto congeniale, quella dell'Assedio: i sopravissuti in trappola in un luogo chiuso, i morti che vogliono entrare e mangiarseli. Già questo primo locus tipico del ciclo dei morti è in gran parte disatteso da Land of the Dead che solo teoricamente si configura come quarto capitolo della serie 'i morti assediano'; nella pratica infatti il tentativo di ingresso degli zombi nella città non costituisce il fulcro emotivo/emozionale del film che invece si perde in sottotrame, giochi di potere e vendette di scarso interesse. La conseguenza più immediata di questo impianto narrativo in qualche modo più complesso, ma anche più “diluito” rispetto ai precedenti capitoli, è la perdita della inquietante, diretta semplicità di questi ultimi in favore di una nuova convenzionalità. Ecco che in luogo dell'inquietudine e dell'angoscia Romero si trova costretto a giocare la carta dello spavento e degli 'scossoni', ricorrendo spesso a vecchi trucchetti horror, vuoti e vagamente tristi (il falso allarme seguito dall'effetto 'sobbalzo sulla sedia', la sparata audio improvvisa), che un tempo avrebbe usato con molta più parsimonia e senso della misura. Tale banalizzazione registica di Land rispetto ai suoi predecessori la si riscontra, purtroppo, anche a livello 'contenutistico', verrebbe da dire 'di idee'; Romero ha infatti tentato di rinnovare il consueto portato socio-politico della saga finendo quasi per snaturarlo. Il fascino dello zombi come immagine deteriorata del 'consumatore finale' cede qui il passo a una critica alla società diretta quanto scontata (nella nuova città ri-organizzata pochi ricchi sfruttano molti poveri) ma soprattutto a una (ambigua) evoluzione degli stessi zombi che lascia un po' perplessi: c'era davvero bisogno di dotare i claudicanti morti viventi di un barlume di intelligenza per ricordarci che 'gli zombi siamo noi'? Non bastava il già esplicito scambio di battute iniziale ('sono morti che fingono di essere vivi, come noi') a puntualizzare l'ovvio? Certo, la trovata (autoreferenziale) che stavolta l'eroe di colore è dall'altra parte della barricata è simpatica, peccato rientri comunque nell'ambito di una banalizzazione che rischia di intaccare la primigenia forza allegorica dei morti viventi (nel film chiamati per la prima volta 'appestati', pessima non-traduzione dell'originale walkers).
Gli attori sono tutti da 6 politico (Dennis Hopper compreso, che pure sulla carta era una figura attoriale e umana perfetta per il ritorno in grande stile di Romero), tranne Asia Argento che si becca il solito debito formativo (ma la sceneggiatura le mette in bocca un sacco stupidaggini); Tom Savini fa la consueta comparsata, stavolta nella parte di uno zombi (un po' come in Dal Tramonto all'Alba), ma non cura gli effetti speciali, che comunque non deludono nel reparto gore e fanno un buon uso-non-abuso della CG.

Romero torna alla regia dopo cinque anni portando su grande schermo il quarto capitolo della saga degli zombi. Bisogna dire subito che La terra dei morti viventi è una produzione targata Universal, quindi molto più ricca dei precedenti capitoli. Questo lo si capisce fin dalla prima scena: profluvio di zombi variamente mutilati e disgustosamente orripilanti, macchinari futuristici di ogni sorta e diversi scenari come sfondo dell'azione: un'intera città con tanto di sotterranei, ghetto e grattacielo dei potenti ritoccato in computer grafica.
Al di là dello sforzo produttivo, sono almeno due le cose che ci si aspetta da un film di Romero: lo stile, quello inconfondibile di un autore che alla fine degli anni '60, con pochissimi soldi, ha saputo rivoluzionare il concetto di film horror (La notte dei morti viventi); e il messaggio, quello di un'acuta e spietata analisi della società capitalistica, in grado di trasformare il primo mito horror nato sullo schermo del cinematografo (lo zombi [1]) in una potente metafora di contestazione culturale e politica. Quest'ultimo capitolo della celebre saga degli zombi non può non fare i conti, dunque, con le forti aspettative che lo hanno preceduto. Dal punto di vista dello stile il film di Romero è una mezza delusione. Il regista del Bronx infatti ci regala una pellicola che si limita a mettere in scena gli ottimi effetti 'artigianali' di make-up firmati da Greg Nicotero (allievo di Tom Savini), senza regalarci il brivido di un’inquadratura, di un movimento di macchina degno del miglior Romero (Wampir, Zombi). La regia è infatti il punto dolente del film: didascalica, televisiva, incapace di articolare un movimento di macchina più ampio della singola inquadratura. Il risultato è una pellicola totalmente priva di ritmo, cosa che per un horror significa perdere immediatamente una buona dose di appetibilità. Dal punto di vista dei contenuti invece Romero regala uno dei suoi film più coraggiosi ed estremi. Non solo La terra dei morti viventi mette in scena degli zombi 'buoni' (descrivendoli come oppressi in cerca di redenzione), ma ogni categoria sociale, politica, culturale dell'american way of life viene puntualmente presa di mira, messa alla berlina e infine giustiziata (non è un caso che il leader della riscossa dei morti viventi sia un benzinaio di colore, che il giustiziere del cattivo di turno sia un portoricano, e che a impersonare il potente privo di scrupoli sia Dennis Hopper la cui opera cinematografica si è da sempre distinta per i suoi contenuti di contestazione). Nelle mani di Romero l'ottusità degli zombi si trasfigura nella grazia ingenua del primitivo, la famelica pestilenza si trasforma in marxiana lotta per la sopravvivenza, e la distruzione dell'umanità si dimostra una volta di più una conseguenza dell'avidità dei vivi. Con La terra dei morti viventi la metafora che ha dato origine alla mitologia ritorna metafora. Ma la chiave di lettura è scoperta: la distanza tra maschera e verità è stata ormai colmata dalla realtà che ha abbattuto la rappresentazione del gore al ground zero della messa in scena. Lo shock della carne strappata a morsi, dei cervelli spappolati, dell'abominio dell'antropofagia sono gli unici significanti possibili per veicolare il senso della lotta per la sopravvivenza [2]. Al di sotto dello sfacelo materiale dello zombi Romero situa una personale 'morale' del sacrificio: contro un cannibalismo rimpolpato dalla demagogia l'unica arma vincente è un morto che cammina per portare la morte altrove. Un altrove connotato attraverso i simboli del capitalismo (il grattacielo), contraddistinto dallo sfruttamento sociale (la divisione in classi) e definitivamente risolto sul piano politico (gli oppressi sono armati dagli stessi oppressori) [3].
Un discorso a parte meritano gli effetti speciali. Per risolvere la questione della loro rappresentazione Romero aveva davanti a sé due strade con una solida tradizione nel recente passato: il manierismo e l'autocitazione. La soluzione adottata è stata invece un'altra. Da una parte Romero non ha concesso nulla alla tradizione contemporanea dell'horror patinato delle grandi produzioni, risolvendo la scelta tra computer grafica e make-up a vantaggio decisivo di quest'ultimo [4], sancito da un utilizzo neutro della fotografia. Dall'altra ha messo da parte ogni ironia, concedendosi solo il lusso di un paio di cammei illustri (l'immancabile Tom Savini nella parte di uno zombi) e puntando decisamente sulle connotazione politico-culturali dell'esibizione del gore. Romero riesce ad essere politico anche nella scelta del make-up: estremo e tecnicamente sofisticato, messo in scena con una certa noncuranza stilistica in grado di far precipitare l'ironia in pungente satira e il disgusto in vera inquietudine.
In definitiva la pellicola mostra tutti i limiti di Romero a contatto con le produzioni di serie 'A': scarsa considerazione della forma, inadeguatezza di contenuti. Dall'altra con La terra dei morti viventi scrive il capitolo artisticamente più ingenuo e tuttavia politicamente più coraggioso dell'ultimo ventennio. Romero ha dato la sua risposta: i contenuti hanno la precedenza sull'esibizione tecnologica.

L'autentica natura dei morti viventi non è simbolica, metaforica o allegorica, come recita la vulgata cinefila. È puramente mentale. Un processo psichico che scatta ogni qual volta è dato osservare, riconoscere e temere un organismo costituito da usi, consumi e appetiti eterodiretti. L’orrore scaturisce dal vedere nella meccanica mostruosità dello zombi una spaventosa gigantografia di sé, una feroce caricatura delle proprie tendenze a riprodurre inconsapevolmente – e pertanto a legittimare involontariamente – modelli di vita e pensiero ricevuti. Con una certa voluttà, giova aggiungere. Il morto vivente è il cliché trionfante, il luogo comune festante, il linguaggio “che parla” l’uomo. Un riflesso deformato, ma non più di tanto, della normalità, insomma.
George A. Romero, padre degli zombi cinematografici (ma come non ricordare i precedenti tourneriani e, soprattutto, ragoniani?), ha giocato fin dall’inizio con la natura psichica di questi revenants in perenne stato famelico, sviluppandola secondo una precisa traiettoria concettuale. Se con La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead, 1968) e Zombi (Dawn of the Dead, 1979) l’analisi romeriana si è concentrata sull’impatto devastante del morbo e sull’elaborazione di conseguenti strategie di sopravvivenza, Il giorno degli Zombi (Day of the Dead, 1985), il più teorico della serie, mette a fuoco i problemi morali generati dalla convivenza forzata tra uomini e morti viventi. Scheletricamente, la trilogia è riassumibile nella sequenza conchiusa “azione-reazione-riflessione”.
Ebbene, La terra dei morti viventi (Land of the Dead) arriva a materia già esaurita, raschia il fondo del barile tematico e diluisce la carica provocatoria del discorso in una complicazione narrativa decisamente farraginosa e inconcludente. La ferocia eversiva de La notte dei morti viventi si stempera in desiderio di fuga, lo scontro frontale di Zombi si converte in lotta intestina e la problematicità morale de Il giorno degli Zombi si irrigidisce in banale manicheismo. L’essenzialità di scrittura delle pellicole precedenti si smarrisce in ghirigori e fumisterie varie, perdendo mordente e incisività. L’elementarità stilistica si appesantisce in impronta didascalica, in sottolineatura enfatica, in pedestre simbolismo. E a trionfare è il meccanismo greve del “come se”: è come se gli appestati, con i loro suoni gutturali, parlassero, è come se i fuochi d’artificio fossero fiori del cielo (e, per via d’intuizione, inebetenti immagini televisive), è come se questo Land of the Dead chiudesse degnamente la tetralogia dei morti viventi. Come se, appunto.