TRAMA
Mato Grosso do Sul: alcuni indios, dopo l’ennesimo suicidio fra le loro fila, lasciano la riserva per tornare alla terra natìa: la trovano disboscata e coltivata da un fazendeiro bianco. Si accampano lo stesso.
RECENSIONI
L’italo-argentino Bechis sposta l’attenzione dai desaparecidos (Garage Olimpo, Figli/Hijos) agli indios dell’Amazzonia (i guarani - kiowà), ma tratta sempre di esseri umani che “scompaiono” (propensi al suicidio) e oppressi. Denuncia la distruzione della foresta (“mato grosso”, in fondo, significa “foresta fitta”) e la miseria in cui sono costretti i suoi primigeni abitanti, ma perde alcune delle migliori qualità del suo cinema: la frammentazione da ricomporre della drammaturgia, qui sin troppo lineare; l’abilità nel muovere a indignazione senza manicheismi, qui negata dalla contrapposizione bianchi viziati/agiati e “buoni selvaggi”; la narrazione per sole immagini, qui sorretta da una fotografia naturalistica che non esalta la Natura e da un occhio registico che non ne fa una comprimaria; il pàthos che avvicina ai personaggi, qui relegato in poche sequenze di “rabbia” (la cacciata dello spaventapasseri e l’urlo finale dell’apprendista sciamano). L’opera è coraggiosa (per l’argomento) e curiosa (prendendo a protagonisti i diretti interessati), ma non nuova o sorprendente nei temi e nei modi (vedere film affini con pellerossa e aborigeni), soprattutto nel momento in cui non descrive molto le peculiarità di una cultura “altra”, né “deforma” la propria cronaca per avvicinarsi alla sua spiritualità, né sa cogliere frammenti di anime “aliene” esaltando la spontaneità, la non-professionalità degli interpreti. C’è anche il rammarico per una componente magica accennata e non sviluppata (le maledizioni, gli “attacchi” dello spirito malvagio, rappresentati con soggettive convulse): in fondo, le “dissonanze” dal racconto realistico, come l’herzoghiano utilizzo delle composizioni sacre di Domenico Zipoli (gesuita fra gli indios nei primi del 1700), erano gli ingredienti più gustosi. Il titolo internazionale “birdwatchers” si riferisce alla truffa della moglie del fazendeiro, che paga gli indios per vestirsi da “selvaggi” e intrattenere i turisti che vengono a vedere gli uccelli esotici.

Marco Bechis si colloca a livello cinematografico in quella zona di confine dove la fiction incontra il documentario. Non sceglie la contaminazione, ma il suo stile rigoroso lascia più spazio all'analisi antropologica che alla narrazione tradizionale e il merito maggiore del film finisce per essere quello di indagare una questione ampiamente dibattuta e di non facile risoluzione. Dopo avere affrontato una vicenda vissuta in prima persona, quella dei desaparecidos argentini (il cui dolore traspare sia nel potente Garage Olimpo che in Figli-Hijos), Bechis sceglie infatti un altro tema che tutti conoscono ma che pochi hanno provato ad approfondire, perlomeno a livello cinematografico: lo spaesamento dei Guarani-Kiowà brasiliani che, abbandonati dalle istituzioni, sono stati espropriati della terra in cui vivevano, destinata a colture, e confinati in riserve. Ciò che al regista interessa mostrare è il dolore di chi si sente togliere ciò che considera un suo naturale diritto. La tesi è ovviamente dietro l'angolo, Bechis sa esattamente dove vuole portare lo spettatore, ma si mantiene essenziale e per lo più rigoroso nel tratteggiare personaggi e situazioni. Almeno in apparenza. In realtà finisce per scolpire con una certa determinazione il punto di vista. Basta pensare, oltre allo stridente finale con slogan, a come descrive il lato occidentale della vicenda: il fazenderos e la moglie sono arroganti e antipatici e la figlia è capricciosa e annoiata. Anche altre scelte narrative suonano vagamente perniciose. Il legame tra la figlia del proprietario terriero e un indios sembra alludere all'apertura mentale dei giovani, unici in grado di superare i pregiudizi razziali, salvo poi mostrare l'indifferenza della ragazza al tragico corso degli eventi. L'unico a stabilire un contatto che non sa di sfruttamento è lo spaventapasseri bianco, ma è persona un po' sciroccata e senza alcun potere decisionale. Proprio per sottolineare il fine ultimo del film i protagonisti assoluti sono gli indios, mentre agli attori italiani, per evidenziarne la marginalità nell'economia del racconto, restano solo ruoli di contorno: la bella moglie del latifondista (Chiara Caselli) e l'uomo un po' grullo che vive in una roulotte al centro della proprietà per tenere lontano gli indigeni (Claudio Santamaria).
