TRAMA
Una delegazione cinese arriva in Italia per rilevare un grande impianto da un’acciaieria in disarmo. Vincenzo Buonavolontà, manutentore, è convinto che l’altoforno in vendita non sia in buone condizioni ma quando scopre quale è il difetto dell’impianto i cinesi sono già ripartiti. Vola allora a Shangai per portare la centralina modificata all’impresa acquirente.
RECENSIONI
Tratto dal romanzo di Rea La dismissione, il film di Amelio descrive l’impresa donchisciottesca di Buonavolontà (nomen homen), carattere fuori dagli schemi, protagonista di un viaggio quasi favolistico in una Cina che scopre diversa da quella immaginata e suggerita dai media. L’esperienza nel gigantesco Paese, tra coincidenze irreali e incontri di varia umanità, si impregna di riflessioni sullo stato delle cose, sulle contraddizioni di un popolo diviso tra tradizione atavica e progresso dilagante, di sguardi su una realtà che incombe, ed è il nucleo centrale di un film che parte piuttosto bene: l’incipit, la cosa migliore di tutta la pellicola, è denso - un paio di colpi d’ala di indubbia suggestione - ma costituisce una premessa purtroppo fuorviante. Non appena inizia il girovagare del protagonista nel territorio cinese l’opera si sgretola pian piano mettendo in luce i difetti di una sceneggiatura totalmente inadeguata, piena zeppa di semplicismi, sottolineature e irritanti imbeccate allo spettatore. Amelio non ha il coraggio di assecondare a pieno la forza delle sue immagini e gira l’ennesimo film “dentro la notizia” senza rinunciare a chiuse didascaliche e a toni dissimulatamente predicatori.
Fiaccata da una dialogistica esile, la pellicola, itinerante com’è nella cifra del regista, non riesce neanche a chiudere la partita in tempo (il pianto di Castellitto, in una prova non folgorante, poteva essere un the end dignitoso) non rinunciando all’appiccicaticcio siparietto finale, che ci rassicura sul destino dei protagonisti ma non certo sullo stato di forma dell’autore.

Si dirà che l'importante è viaggiare e non giungere a destinazione, ma per comprendere appieno il senso del viaggio è necessario almeno capirne le motivazioni. Il problema del film di Gianni Amelio è proprio nella sceneggiatura (per restare nella metafora, ciò che dà carburante al film permettendo al viaggio cinematografico di compiersi). L'on-the-road in un paese che alterna la monumentalità e il caos delle grandi città alla vita rurale dei piccoli paesi sparsi nella immensa provincia, è molto interessante e istruttivo, perché mostra la doppia faccia della Cina attuale: un enorme cantiere a cielo aperto dove si rincorre la modernità senza tenere conto delle persone, intese non come forza lavoro, ma come esseri umani in cerca, come tutti quelli che possono permetterselo, di serenità e gratificazione. Parlare in Cina di diritti del cittadino e del lavoratore appare quanto mai illusorio e il film mostra i luoghi e le facce, fa sentire gli odori, mettendo lo spettatore in grado di comprendere meglio le contraddizioni di una realtà geograficamente lontana. Al di là dell'immersione in un'altra cultura, però, la storia e il suo sviluppo hanno gambe assai fragili. Intanto perché del protagonista non sappiamo nulla, se non che è (era?) un operaio specializzato nella manutenzione di un altoforno venduto a una società cinese. Forse è un idealista (già il cognome Buonavolontà è un segnale), ma per tutto il film ci si domanda chi paghi il suo viaggio e il motivo di tanta determinazione nell'affrontarlo. Poi, appena arrivato a Shanghai, città con milioni di abitanti, incontra per caso, e riconosce, l'interprete cinese che aveva visto mesi prima in Italia per non più di cinque minuti. Ma le coincidenze non sono finite e pure il finale a mezze tinte propone un improbabile ritrovarsi dei due protagonisti in una stazioncina persa nel nulla. La strana coppia, l’operaio e l’interprete locale, nella parte centrale funziona invece a dovere, nel senso che il confronto tra culture diversissime soddisfa la curiosità e trova momenti di tenerezza coinvolgenti. Poi un sentimentalismo un po’ forzato prende il sopravvento e mina ulteriormente le già deboli basi narrative. Peccato, perché l’occasione era davvero perfetta per fare incontrare le ragioni del cuore con un’inconsueta indagine sociale. Nella freddezza del risultato si distingue comunque l’ottima interpretazione di Sergio Castellitto, ancora una volta capace di incarnare pregi e difetti dell’italiano medio con una studiata misura in cui gli egoismi bilanciano gli slanci affettivi. Un “tipo” che forse esiste prevalentemente al cinema, ma capace di offrire importanti appigli all’immedesimazione.

Pur all’interno di una concezione cinematografica già ampiamente perlustrata, La stella che non c’è riesce a indovinare, soprattutto nella prima parte, quell’equilibrio tra documentario e finzione che Le chiavi di casa non arrivava a sfiorare neanche lontanamente. Se infatti nel precedente film di Amelio la marcata impostazione semidocumentaristica risultava disintegrata dall’artificiosità della recitazione, dall’abuso dei primi piani e dalla ricerca dell’intensità a tutti i costi (peculiarità, quest’ultima, che ammorba quasi tutto il cinema italiano e che d’ora in poi chiameremo “operazione intensità”), La stella che non c’è è un film che tiene e respira maggiormente, allargandosi più volte all’osservazione degli ambienti, alla descrizione delle atmosfere e, soprattutto, all’iscrizione dei corpi nello spazio. Nei momenti più felici il film vive dello scambio e delle dinamiche che i corpi intrattengono con i luoghi, molto spesso portatori di un forte senso di verità: non si tratta di semplice illusione referenziale, ma di un ancoraggio realista che restituisce la presenza tangibile e concreta delle situazioni rappresentate. Basti pensare alle sequenze iniziali, in cui Vincenzo Buonavolontà (interpretato da Sergio “senso di colpa” Castellitto) è letteralmente sovrastato dall’altoforno o inserito in interni che lo incorniciano e lo opprimono pesantemente. In questi frangenti, senza ricorrere a stratagemmi retorici o espedienti didascalici, il condizionamento del contesto si manifesta in un’efficace e lapidaria espressione visiva. Cosa che del resto si verifica nuovamente durante il viaggio lungo lo Yangtze, quando lo sguardo di Amelio, solidale a quello di Vincenzo, si lascia impressionare dall’inquietante imponenza dei paesaggi e delle città che si innalzano improvvisamente dal fiume. Purtroppo non convince la dimensione “evenemenziale” del film, troppo implausibile per appassionare davvero e troppo poco suggestiva per affascinare e incantare: con tutte le sue coincidenze e incongruenze la trasferta cinese di Vincenzo richiede una sospensione dell’incredulità francamente spropositata, mentre la componente favolistica è gestita così maldestramente da far pensare più a una soluzione d’emergenza che a una struttura narrativa profonda. La debolezza dell’intreccio limita sensibilmente anche l’emotività del mélo non conclamato: per quanto l’intesa tra Castellitto e l’esordiente Tai Ling non sia tra le peggiori viste sullo schermo, l’artificiosa intermittenza dei loro incontri e la spigolosa programmaticità dei loro avvicinamenti rendono la progressione sentimentale scarsamente verosimile, riducendo la credibilità del loro rapporto alla sola reciprocità fisica. Fotografia efficacemente atmosferica di Luca Bigazzi e suono in presa diretta splendidamente ruvido e caotico di Remo Ugolinelli.
