TRAMA
Victor, promesso sposo, si ritrova improvvisamente nella regno dei morti, dove si unisce in matrimonio con una misteriosa sposa cadavere mentre la sua sposa vivente, Victoria, lo aspetta nel regno dei vivi.
RECENSIONI
Dopo "Nightmare Before Christmas" Tim Burton (co-regista insieme a Henry Selick) torna all'animazione a passo-uno, aggiornata alla moderna computer grafica, adattando per il grande schermo un'antica fiaba ebraico-russa. Il risultato è un gioiello di rara leggerezza tutto giocato sul contrasto tra il mondo dei vivi, cupo e formale, e quello dei morti, allegro, coloratissimo e spensierato. Il punto di incontro è un simpatico equivoco che fa maritare, per errore, il protagonista Victor ad una sposa zombie, mentre la predestinata Victoria lo attende con trepidazione. La scoppiettante storia scivola con grande senso del ritmo grazie a una sceneggiatura che non perde un colpo, la tecnica si dimostra perfetta alleata nel far muovere con fluidità i personaggi e nel farli interagire con le suggestive scenografie e un'ironia contagiosa permette a Burton di giocare con un argomento tabù come la morte. Anzi, è proprio in un aldilà totalmente laico e dai colori impazziti che il divertimento è garantito, quasi a voler sottolineare la necessità di una fuga dal presente, comunque grigio, mortifero e in rigida dipendenza dalle pulsioni umane. Per la costruzione di un universo credibile il dettaglio è ovviamente fondamentale e sono tante le invenzioni che arricchiscono senza tregua la narrazione: l'occhio semovente con verme incorporato della sposa cadavere, il reparto sartoria di competenza dei ragni tessitori e della loro tela, il cagnolino zombie e le numerose citazioni, puro spasso che non diventa mai invadente (la danza degli scheletri in omaggio a quella costruita da Ray Harryhausen per "Gli argonauti", lo scheletro con tanto di baffetti che "francamente, se ne infischia" sulla scia di "Via col vento"). Determinante, per la creazione della magia, il contributo musicale del fido Danny Elfman.
Forse il miglior Tim Burton di sempre, con una creatività a briglia sciolta in cui tecnica, estro e poesia trovano un prezioso punto di equilibrio.
Dopo gli esiti a dir poco problematici degli ultimi ambiziosi film, su Burton era avanzato il sospetto di una superficialità autoriale sino allora occultata dall’originalità figurativa, dalla malinconica eccentricità e dalla romantica dolcezza dei personaggi, dall’esibito grottesco delle svolte narrative.
Oggi il talentuoso regista adotta la forma del film d’animazione, e torna all’infantile cuore primigenio della sua poetica: la rappresentazione, attraverso il gusto fabulatorio felicemente ritrovato, di un lirico universo di creature anomiche, spesso condannate alla solitudine dalla loro singolarità marginale, dall’incommensurabilità di un destino irredimibile perché connaturato alla loro stessa identità. Vero specchio della condizione umana, di sotto al belletto che c’industriamo a stendere sui nostri volti.
Burton sembra anche aver recuperato la capacità di rivisitare in chiave allo stesso tempo parodica e nostalgica i generi frequentati (la ghost story in Beetlejuice; il fumetto e il noir nei due Batman; il B-movie in Ed Wood; la fantascienza – con un più marcato intento satirico – in Mars attacks!; il gotico in Sleepy Hollow), qui mescolati e triturati in un autentico tripudio citazionista. Se il titolo del film è, sul piano della fabula, La sposa cadavere, su quello formale esso potrebbe essere Il film Frankenstein: sono decine le sequenze, i dialoghi, le inquadrature, le singole battute prelevati da altri film (dalla serie A alla Z: inconfondibile marchio di fabbrica del postmodernismo), fino a un invadente omaggio intertestuale all’attuale compagna del regista: il personaggio cui presta voce Emily Watson è vampirizzato tramite una battuta – “Mia madre pensa che la musica sia sconveniente per una signorina di buona famiglia” – che Helena Bonham Carter pronunciava vent’anni fa in Camera con vista.
Si possono sollevare interrogativi sull’effettiva portata di questa strategia del riuso spinta al parossismo (il travelling circolare reiterato che avvolge gli amanti abbracciati è ancora una citazione da Vertigo, o è ormai una formula codificata del linguaggio cinematografico come la dissolvenza o l’iride?); sull’avvicinamento, salve le notevoli differenze negli esiti, alla sminuzzata declinazione dei topoi cinematografici e all’ammiccante serializzazione delle “allusioni” (Segre) che caratterizza lo stile di altri e spesso meno ispirati registi (dal precursore Mel Brooks fino ai famigerati Wayans), nei cui film il dato che s’impone è soprattutto la forza dell’accumulo; sul fatto che il cinema debba riporre in tale paradigma espressivo le sue speranze. Ma sospendiamo ogni giudizio, e ci lasciamo cullare nell’incantesimo.