La spiaggia nel deserto.

Sofferta eleganza, austera disperazione, vulnerata malinconia: segni squisiti della grandezza di un cineasta vigliaccamente sottostimato e misconosciuto. In 56 anni di vita e 22 di tormentata attività, Valerio Zurlini (1926-1982) ha girato 8 splendidi lungometraggi e 13 cortometraggi pressoché invisibili. Un esteta malinconico assillato dal fascino rovinoso della sconfitta, un raffinato fautore dell’eleganza trasandata della disfatta. Il sommo cantore della débacle esistenziale. Dopo decenni di sostanziale oblio, negli ultimi anni qualcosa si è smosso: il volume collettivo curato da Lino Miccichè Un viaggio ai limiti del giorno pubblicato nel 2000 in occasione del restauro de La prima notte di quiete, il Castoro Cinema dedicato al regista bolognese da Gianluca Minotti nel 2001 e, oggi, la preziosa monografia La spiaggia nel deserto. I film di Valerio Zurlini scritta da Francesco Savelloni per i tipi della Firenze Atheneum. Finalmente l’opera di riqualificazione ha preso il via.
C’è da dire subito che Savelloni non è studioso di cinema, ma cultore di filosofia e autore di cortometraggi, sicché il suo approccio all’universo poetico di Zurlini si sviluppa interamente sul doppio binario del pensiero e della prassi, in un andirivieni di suggestioni che vorrei chiamare semplicemente “sensibilità”. Non si trovano dunque nel libro puntigliose analisi dei dispositivi di messa in scena o accanite esplorazioni stilistiche, ma, impaginate in ordine cronologico, “ricognizioni sensibili” delle pellicole zurliniane, tutte invariabilmente segnate da un’affinità di sentire e da una finezza ermeneutica di infallibile acutezza. Si sente il dialogo tra due mondi in sintonia, le pagine sprigionano profonde risonanze affettive, il saggio si colora di sfumature intime.
Ed è indubbiamente un bene per il lettore e per la lettura, dal momento che la  forza trainante della monografia risiede davvero in questo nodo cruciale in cui metodo e immedesimazione si incontrano e contaminano, dando vita a uno di quei fertili ossimori che per Savelloni scandiscono la biografia e la poetica zurliniana: “L’ossimoro è fortemente presente nella vita e nell’opera di Valerio Zurlini: la sua religiosità laica (o ateismo religioso), il comunismo eterodosso, un amore schivo (disperato) per gli uomini, una cinematografia freddamente melodrammatica, la morte prematura”.
È appunto in questa traiettoria in bilico tra analisi e vagheggiamento che Savelloni compie il suo viaggio nella filmografia di Zurlini, adottando come asse semantico fondante la coppia speranza/disperazione e mostrando come l’universo poetico del regista bolognese sappia coniugare speranza della disperazione (il superamento spirituale della disperazione) e disperazione della speranza (l’abbandono di ogni orizzonte irrazionalmente fideistico) in un  «cinema dell’adolescenza» concepita come fase di transizione esistenziale. Un cinema in continua crescita che assume come punto fermo l’evento traumatico, occasione di ripensamento e disillusione: “Zurlini filma sempre una catastrofe (nel senso etimologico): il precipitare degli eventi che conducono all’amara consapevolezza e al conseguente cambiamento; l’uomo nuovo nasce dalle macerie del vecchi, tutto muta, dentro, anche se esteriormente tutto appare immutato”.
Articolato in paragrafi consacrati alla disamina dell’intera opera zurliniana (i cortometraggi sono considerati congiuntamente mentre i lungometraggi sono affrontati singolarmente) e introdotto da un’agile premessa seguita da una selezione di dichiarazioni del regista, La spiaggia nel deserto rappresenta, nella spiccata originalità del suo approccio alla materia, un testo chiave per penetrare le pieghe più nascoste di una personalità che ha marcato in modo incredibilmente profondo un’epoca cinematografica sedotta dalle forme chiassose e apparentemente liberatorie della modernità. Zurlini ha scelto la strada più difficile, quella del confronto con la raffigurazione delle costrizioni: “Non c’è che la mancanza di libertà a darti certe ventate d’allegria”.