Drammatico, Evento, Focus, Recensione, Sala

LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO

TRAMA

Bernard vive con Arlette e il figlio Thomas in un piccolo paese della tranquilla campagna francese. Improvvisamente però sono Philippe e Mathilde con cui l’uomo aveva avuto una relazione otto anni prima a comprare la casa accanto…

RECENSIONI

C'est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé
!
Edith Piaf, Non, Je ne regrette rien

Truffaut (ancora) alle prese con il sentimento amoroso, con l'amour fou più precisamente, racconta la storia di un esaurimento nervoso dopo una delusione d'amore. Il regista, servendosi del dialogo perfetto tra la totale e aggressiva chiarezza a livello di messa in scena e la completa semplificazione tematica - che trova le basi nella costruzione di un gioco con intrecci simili tra di loro -, indaga su un'ossessione personale di cui rielabora i motivi teorici già trattati in precedenza: il triangolo amoroso, la precarietà dei sentimenti che vincono il ragionamento, il passato che non passa e non insegna, ma ottenebra il presente. Il tono della narrazione diventa grave, si smorza e si interrompe bruscamente sul viso dilaniato di Fanny Ardant consapevole del significato di sofferenza ¹, rifugiandosi nella disperazione finale noir. La passione muta in esaurimento e  si concretizza prima, mostrando il corpo materico di Fanny Ardant sulla scena per una lunga inquadratura in una camera d'albergo a ore poi, non rimanendo sul piano del simbolico, si trasforma in malattia esibendo la donna distesa su un letto di ospedale che ripete più volte di sentirsi spazzatura. Mathilde cerca di sfuggire al desiderio aggressivo con cui Bernard vuole tramutarla in mero oggetto sessuale, mentre l'uomo sotterra i sentimenti (senza riuscirci) preferendo la convenienza della miopia casalinga borghese. Truffaut ci parla così del tempo che, distrutto dal fato delle ricorrenze, non insegna a vivere ma (paradossalmente) fa rivivere - sottoforma di revenants macabri -  le stesse afflizioni (Mathilde e Bernard) e non da' alcuna possibilità di risoluzione (madame Jouve non riesce ad avere abbastanza coraggio per affrontare l'uomo per il quale si era quasi uccisa).  L'amore uccide, lo rivelano le notizie di cronaca; i gatti fanno l'amore «come dei selvaggi» e in realtà sembrano lottare: il gioco - il piacere - diventa massacro;  le differenze si fanno sottili: la vita non insegna alla vita, ma il cinema asseconda le domande, aiuta la vita a vivere.

Quanto era algido e trattenuto il precedente L’Ultimo Metrò, tanto è passionale ed esplosivo questo “amour fou” che induce a riflettere, affascina, respinge, coinvolge nel suo turbinio d’emozioni contrastanti, nella sua bellissima, mortale follia. Prima gioca sul mistero, poi canta l’amor perduto per un’incomprensione e si chiede se sia possibile tornare indietro. Il primo segnale di squilibrio lo dà Gérard Depardieu in quella sequenza in giardino con gli ospiti, talmente assurda da assurgere a potente allegoria del delirio amoroso. L’amore folle è egoismo: come andare fieri del male inflitto a chi ci sta accanto (la moglie, il marito)? È colpa, dissennatezza, violenza, malattia (l’esaurimento nervoso), crudeltà, incontrollabile sofferenza. Eppure affascina mortalmente, trasporta verso i suoi attori (soprattutto Fanny Ardant, in quanto “Gli uomini in amore sono dei dilettanti”) perché è anche desiderio, estasi e beato equilibrio fra Eros e Thanatos, elementi magistralmente fusi in amplesso nella sequenza finale, dove si respira aria di terrore (la porta che sbatte nella notte, la silhouette di lei con impermeabile nel buio) e di morte (la terribile lettura del referto medico). Geniale l’invenzione del personaggio interpretato da Véronique Silver, una proiezione futura e più assennata di quello della Ardant: la complicità che s’instaura fra le due donne è premonitrice e amplia le riflessioni.