Commedia, Recensione

LA SIGNORA AMMAZZATUTTI

Titolo OriginaleSerial Mom
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1994
Genere
Durata100'

TRAMA

Beverly è la perfetta moglie e madre: guai a chi si azzarda a mettere in discussione la serenità della sua famiglia…

RECENSIONI

L’orrore puro nasce dall’interno, dall’interno di una cucina medio – borghese linda ed ordinata, per essere precisi. La signora Sutphin gestisce la vita propria e dei familiari (marito e due figli) come una Mary Poppins al tempo delle sitcom, ma l’impeccabile sorriso che sfoggia in ogni momento della sua giornata inganna tutt’al più la placida e rispettabile comunità di Baltimora, non certo lo spettatore, che viene edotto fin dalla sequenza introduttiva sulla vacuità dell’habitat in cui galleggiano i personaggi (quei cieli tersi, azzurrissimi, devastanti nella loro vacuità, valgono più di mille parole) e sulla ferocia estrema, appena mascherata di buonsenso e sensibilità matriarcale, di cui è capace l’eroina: nella prima scena la vediamo intenta a difendere il nido dall’assalto di un’implacabile zanzara, che finisce giustamente massacrata (è a questo punto che Waters, con gesto sublime, piazza il proprio nome, a conclusione dei titoli di testa). Attraverso la figura di Beverly, il regista analizza non una forma di follia omicida che agisce contro la società (questo è il punto di vista adottato dal pubblico ministero, che difatti esce sconfitto dal processo), ma, proprio all’opposto, una modalità esistenziale che abbraccia senza pudore il conformismo, non solo statunitense, più bieco: il titolo originale, “Serial Mom”, dice più che abbastanza sulla connotazione estremamente negativa associata all’istituzione – famiglia. La protagonista, bella, bionda e saggia come una “vera” signora da serial televisivo, ha hobby zoofili e salutisti (l’ornitologia), adora preparare dolci elaborati, non ama il cinema “perché i film sono così violenti” e non dimenticherebbe uno sgarbo neppure in seguito ad un’amnesia: ogni dettaglio socialmente accettato – ed apprezzato – del suo comportamento è destinato a ribaltarsi per rivelare, in una progressione comica inarrestabile, la natura meschina ed ottusa di questa donna e dei valori ormai privi di senso di cui si fa paladina. Così, il suo amore per gli animali le permette di intenerirsi per uccellini e cagnetti, non per gli esseri umani da lei stessa accoltellati, la passione per la cucina “di classe” la porta a concepire delitti geniali nella loro avventatezza ed una strategia processuale che è un capolavoro d’audacia millimetrica, l’avversione nei confronti della settima arte non le impedisce di sciropparsi gli stomachevoli horror di serie Z che sono il pallino di suo figlio Chip (interpretato con verve quasi profetica da Matthew Lillard, di lì a poco uno dei naughty boys di “Scream”). Waters non si limita ad un ritratto al vetriolo di una provincia mai così globale nei suoi deliri a base di grumi di sangue e buoni sentimenti (Beverly, è ovvio, uccide per amore, solo per amore): più che con i mostri, il regista ce l’ha con chi li eleva allo status di personaggi pubblici, di paradigmi, di slogan buoni per ogni merchandising (il fiorire di gadget e proposte di “adattamenti” televisivi che accompagna il processo, l’epifania della vera vedette del piccolo schermo Suzanne Somers). Ma tale alleanza, spinta ben oltre i limiti del delirio, è destinata ad infrangersi nell’ultima, esilarante, raggelata inquadratura. Il film sberleffa senza pietà i propri modelli presunti (soprattutto i thriller d’infima lega, evocati dalle didascalie) e raggiunge spesso, ad esempio nella sequenza notturna in cui Beverly “fa visita” ad una coppia di pazienti di suo marito, una sintesi sublime d’angoscia e spasso (magistrale l’uso del montaggio alternato multiplo, che associa e fonde un orgasmo derivato dall’onanismo, un rutto e il rantolo di un’agonizzante). Divina Kathleen Turner, adorabile e ripugnante; ottimo il resto del cast, irresistibili i cammei dell’ex pornodiva Traci Lords e dell’ex ereditiera Patricia Hearst.

Black comedy caustica in cui John Waters abbandona il caleidoscopico e grottesco musical kitsch delle opere precedenti per abbracciare uno stile con maggiore aderenza realistica. Un’evoluzione, non un ripiego di compromesso con il mainstream: invece che dare l’esclusiva al trash figurativo, racconta di quella spazzatura morale (gli unici a difendere l’assassina, all’inizio, sono i netturbini) che alberga ovunque e nella contemporaneità (gli ultimi film viaggiavano fra anni cinquanta e sessanta), più fetida e meschina. La sua vena sardonica, feroce, si moltiplica, l’effetto è il più dirompente della sua filmografia. Target privilegiato l’ipocrisia borghese dell’America bigotta e perbenista che, secondo lui, nella propria spinta repressiva nasconde un’insopprimibile sete di violenza e devianza: la bravissima Kathleen Turner è la mamma perfetta di stampo televisivo, va in chiesa (con il prete a favore della pena di morte), tiene pulita la casa, cucina e si occupa dei figli con maniacale attenzione. Ma l’ossessione paranoica verso l’ideale chimerico la porta a uccidere con agghiacciante freddezza (sposata all’ironia: vedere il cosciotto d’agnello contundente). Si trasforma in serial killer casalinga e Waters si diverte (citando anche Henry Pioggia di Sangue) a prendere in giro quella che è la nuova moda, la morbosità con cui i mass media seguono le vicende degli assassini seriali e lo sfruttamento commerciale della loro immagine e della loro biografia, fino a farne delle star. La signora ammazzatutti è, al contempo, simbolo dell’America punitiva ed eroina di tutti i suoi film, una freak (nell’animo, stavolta) che vive al di fuori delle regole e convive beatamente con le proprie perversioni. La questione verrà discussa in tribunale, istituzione simbolo del Sistema e del suo tipo di giustizia: ma come può un popolo ipocrita e corrotto giudicare chi, al contrario, delle maschere s’è liberato? Un film generoso di dettagli, nell’amato eccesso (il sangue e le frattaglie, la vulva prominente delle cantanti di heavy metal), nell’ironia mai fine a se stessa (gli stessi titoli di testa canzonano le didascalie cronachistiche), nelle citazioni (Chesty Morgan in Double Agent 73, la pop art di Warhol nello studio dentistico, Pee Wee Herman, Joan Crawford assassina e, con “disgusto”, Annie di John Huston e Ghost Dad con Bill Cosby) e con una trama che, con le sue digressioni, arriva a comporre uno schema a incastro quasi matematicamente perfetto, sorta di trattato sociologico sarcastico e farsesco, sull’uomo medio sociale (contando anche il ragazzino che si masturba davanti ai porno, quello che gode dello splatter degli horror: sintomi di desiderio represso, come la moglie puritana che gode come un’assatanata a letto o la signora che si fa leccare, goduriosa, i piedi dal cane). Senza pietà, uno spasso: la violenza è ovunque, non ci sono eroi.