TRAMA
La vita di una bambina prodigio degli scacchi, orfana, di nome Beth Harmon, seguendo le sue vicissitudini dall’età di otto ai ventidue anni (da metà degli anni ’50 a tutti gli anni ’60), mentre lotta contro la dipendenza da alcol e psicofarmaci nel tentativo di diventare grande maestro di scacchi.
RECENSIONI
1 - Venire al mondo
Nell’oscurità di una stanza d’albergo, in un contesto indefinito e imprecisato, una giovane donna emerge dalle acque di una vasca da bagno.
L’insolito, violento ingresso in scena di Elizabeth Harmon (Anya Taylor-Joy), apparizione rivelata prima che ogni ipotesi di intreccio abbia disegnato le proprie trame, costituisce per lo spettatore un curioso quanto efficace imprinting simbolico. La mappa attraverso la quale ci si muove all’interno degli sviluppi de La regina degli scacchi, infatti, prende forma proprio a partire dal succitato, elementare modello di riferimento. Ancora non sappiamo nulla di Elizabeth, e nemmeno conosciamo la condizione del suo disagio; ciò che conta, però, è la modalità stessa della sua manifestazione, la fuoriuscita improvvisa dalle tenebre (sul piano immanente, la suite parigina nella quale Beth si trova; simbolicamente, il liquido “amniotico” che la sommerge) alla luce, lo shock che precede lo scontro con l’avversario (e, come vedremo più avanti, doppio) più importante, la goffa inadeguatezza che essa esperisce affrontando, dolorosamente, il mondo esterno.
Ovviamente, lo stratagemma di cui si avvale il creatore della serie e regista Scott Frank (che ha adattato il romanzo omonimo di Walter Trevis) risulta essere, da un punto di vista formale, piuttosto inflazionato, dal momento che gettare la protagonista in una situazione paradigmatica per poi dispiegare la narrazione attraverso un flashback che, progressivamente, ci porterà dall’infanzia di Beth al momento descritto poc’anzi, non costituisce di per sé motivo di particolare interesse. Tuttavia, è proprio l’aspetto simbolico e fiabesco in filigrana a marcare lo spirito dell’intera operazione, spirito che prende forma nella cronaca della continua e ripetuta venuta al mondo di Beth Harmon, nel processo di separazione e creazione che ne descrive crescita e formazione e nell’indagine sul timore, in fondo condiviso da chiunque, dell’abbandono di un microcosmo conosciuto che precede l’ingresso in una nuova e ignota situazione.
Al di là delle apparenze legate agli elementi spettacolari della miniserie (i tesissimi match di scacchi che, con le loro peculiari dinamiche interne, non sono certo facili da processare per un neofita) l’aspetto decisivo de La regina degli scacchi si configura essenzialmente nella capacità di raccontare, attraverso un curioso matrimonio dialettico tra invenzione archetipica (la prima e più importante delle quali svelata fin dal primo quadro) e narrazione piana e lineare, il grande e accidentato romanzo di formazione di Beth, romanzo che nel bene (rappresentato dal carattere universale, efficace e sempiterno del procedimento legato al Viaggio dell’Eroe di campbelliana memoria) e nel male (che riscontriamo nell’utilizzo di forme e soluzioni visive che, come si discuterà, si dispiegano in giochi di specchi e rimandi talvolta spiazzanti, altre volte ripetitivi), si dipana attraverso una serie di emblematici portali dimensionali.
2 - Oltrepassare la soglia
Nel personaggio di Elizabeth Harmon convivono forze altamente polarizzate, tensioni che spesso coesistono nell’anima del genio e che da sempre ispirano le narrazioni che nel corso del tempo hanno abbracciato vicende simili a quella raccontata ne La regina degli scacchi. I conflitti tra propensione naturale e capacità d’apprendimento o, per dirlo meglio, le continue oscillazioni tra il potere dell’esperienza e l’estasi dell’atto magico innato, costituiscono il motore dell’avventura di Beth e ne illustrano con coerenza il processo di crescita personale.
Si parlava, a questo proposito, di portali dimensionali. Il primo tra questi, vero e proprio leitmotiv visivo della serie, è esperito e vissuto nella sfera interiore della protagonista: la visione della scacchiera virtuale proiettata sul soffitto, creazione mentale di Beth pesantemente coadiuvata dall’assunzione di stupefacenti (la droga e l’alcool, sul piano affettivo e relazionale, collegano Elizabeth alle due madri, rispettivamente quella biologica e quella adottiva), rende visibile la genialità del personaggio e marca altresì il senso di separazione di esso nei confronti del macrocosmo esterno. Nel percorso che vede Beth schiacciata tra necessità di condivisione, pacificata e armonica, del proprio talento con il mondo (l’ultima scena, ribaltamento di quella iniziale nel suo opposto, racconta esattamente questo) e ripiegamento autodistruttivo verso i propri demoni interiori (la sofferenza per l’abbandono reiterato, l’assenza di una guida, il fio da pagare per la “colpa” di essere diversa), altri portali, stavolta fisici, verranno attraversati: a partire dallo scantinato del signor Scheibel (Bill Camp), primo vero responsabile dell’iniziazione di Beth agli scacchi, passando per l’improbabile arco d’ingresso al salotto della famiglia adottiva (famiglia all’interno della quale la protagonista adolescente vive fino in fondo un’esperienza identica a quella appena contemplata nel periodo dell’infanzia, con una figura maschile inesistente e una madre adottiva amorevole e tormentata), fino ad arrivare ai palcoscenici nazionali e internazionali dei tornei di scacchi (la macchina da presa compie un costante e fluidissimo pedinamento di Beth ogni volta che la vediamo in questi luoghi, quasi a mettere in risalto anche la natura empirica e fisica del percorso di formazione di quest’ultima), il personaggio si confronta costantemente con i propri limiti (le imperfezioni del suo gioco e lo sforzo orientato al miglioramento) e con il dolore di una trasformazione che, inevitabilmente, si compie anche grazie al progressivo riconoscimento, e alla conseguente presa di coscienza, dei conflitti familiari e affettivi non risolti.
A fare da eco a tutto ciò, non si può non porre l’accento sulla performance luminosa di Anya Taylor-Joy, sempre disinvolta e credibile in tutte le incarnazioni che il suo personaggio è chiamato a manifestare nel corso della narrazione.
3 - Specchi
Il montaggio formale che mette in relazione volti e sguardi, rendendo sovrapponibili e complementari le figure presenti nei quadri, è l’altro stratagemma stilistico/simbolico che anima la costruzione filmica de La regina degli scacchi.
I personaggi si trovano sempre a doversi confrontare con specchi e doppi, e allo stesso modo l’architettura complessiva dell’opera si regge su singole parti che si riverberano le une nelle altre. Se consideriamo la cornice che circoscrive tutti gli elementi in gioco, osserveremo con facilità come all’oscurità dell’ennesima e dolorosa “nascita” alla quale assistiamo al principio del primo episodio, si contrapponga la solarità dell’equilibrio conseguito da Beth nella scena che conclude la miniserie: in sostanza, l’elemento archetipale di cui si argomentava all’inizio si trasforma specularmente, infine, nel proprio corrispondente positivo. Sotto l’involucro, il gioco ripete il proprio meccanismo attraverso le interazioni dei vari personaggi (si è già discusso del processo di crescita che vede Beth replicare più volte alcune esperienze, in un percorso di accumulo e gestazione molto accidentato), in particolare nell’incontro/scontro tra la protagonista e l’avversario Vasily Borgov (Marcin Dorocinski).
Nella sfida parigina tra i due, Scott Frank sceglie di dilatare il momento del “faccia a faccia” per mezzo di una serie di primi piani speculari, e conclude la scena con uno stacco che ci porta al volto di una Elizabeth ancora bambina, marcando fin da subito una corrispondenza tra la condizione vissuta da Beth al momento del match e lo stadio del trauma infantile esperito anni prima da quest’ultima: l’eroina della serie non si è ancora liberata dei fantasmi che la tormentano. Allo stesso modo, il suo doppio Borgov, superficie riflettente austera e rigorosa (la faccia opposta della stessa medaglia, sostanzialmente), ribadisce in una conversazione il legame profondo che lo connette a Beth Harmon: “È un’orfana, una sopravvissuta. Una come noi. Per lei perdere non è contemplato”.
Oltre a questo, è importante sottolineare come il momento di maggiore lucidità vissuto dalla protagonista si presenti in occasione della sfida con il giovanissimo Georgi Girev, altra immagine allo specchio che Beth può finalmente contemplare da posizione favorevole, con la giusta distanza: la scena viene collocata esattamente al centro dell’intera serie, dividendo quest’ultima in due parti pressoché identiche in termini di durata e di struttura (due sezioni allo specchio: siamo a metà del quarto episodio, La regina degli scacchi conta sette puntate per un totale di 395 minuti, e l’incontro succitato giunge al minuto 195; difficilmente può trattarsi di un caso!), e in essa assistiamo a un autentico salto di consapevolezza che giungerà a compimento nella seconda metà del racconto.
La sequenza inizia con Borgov che passa fugacemente accanto a Elizabeth: lei lo guarda allontanarsi e, un istante dopo, il giovane Girev arriva e si presenta per dare inizio alla partita. Il ragazzo ha tutte le caratteristiche dell’enfant prodige che abbiamo osservato nella giovanissima Beth, la quale avrà la meglio al termine di un match tesissimo e complicato. Georgi, prima di prendere commiato, afferma con sicurezza di fronte all’avversaria che a 16 anni diventerà certamente campione del mondo; lei, con una maturità di giudizio mai mostrata prima, risponde: “E cosa farai dopo, cosa farai per il resto della tua vita?”. Come detto poc’anzi, lo sguardo distaccato e compassionevole rivolto alla personificazione del suo vecchio sé getta una luce differente sul destino di Beth, destino che, fugacemente e in punta di piedi, è passato accanto a lei solo un momento prima, nella figura del grande Borgov.
I giochi sono fatti.