Drammatico, Recensione

LA RABBIA

TRAMA

Un regista vaga di produttore in produttore alla vana ricerca di qualcuno che investa denari per la realizzazione del suo film.

RECENSIONI

Il tentativo – anche riuscito – di evadere dalla gabbia metalinguistica di Hans ripiomba con La rabbia nell’inattuale esigenza di grammatologizzare il testo filmico rischiando di rinchiuderlo in un circuito semiotico asfitticamente autoreferenziale, in un ermetismo linguistico che fa cortocircuitare il già precario patto all’interno del segno tra significanti e significati, tanto per far riferimenti vecchi ma efficaci. Perigli di cui Nero comunque – è bene dirlo – si assume grande responsabilità. L’apologo della morte del cinema come sistema di produzione esclusivamente artistica viene narrata attraverso un’eloquenza retoricamente verbosa dai personaggi che abitano la scena, le incrostazioni metalinguistiche squadernate per tutto il film (Nero si professa protervamente convinto che il cinema sia la mise en abîme del cinema spiegato con il cinema) reggono l’abusato gioco dell’eundo assequi, dell’erfahrung del personaggio protagonista (casualmente un regista, casualmente alter ego di Nero) verso l’opera, del farsi opera dell’opera attraverso il suo medesimo percorso di compimento. L’emissione programmatica dei significati come (s)ragionamento sulle sorti regressive, per non dire funeree, dell’industria cinematografica (aspetto che il giovane regista torinese sembra a volte far finta di dimenticare) è un fastidio sopportato/supportato da uno strato semantico che agisce quasi sottotraccia, in maniera carsica e involontariamente scollata che pretende dallo spettatore una faticosa operazione di ricompattamento del senso, e racconta attraverso la fascinazione del quadro compositivo, côté nel quale Nero – e non è una scoperta – si dimostra oggettivamente impeccabile, il travaglio romanticamente interiore dell’artista-genio nel momento della gestazione del frutto della propria creatività, l’opera per l’appunto. La rabbia lascia allora la sua unica traccia sensata (subordinata cioè a una questione di aìsthesis) nei richiami, a volte potenti, a volte naïf, all’atmosfera da Sturm und Drang, e ai relativi stilemi “notturnici”, schellinghiano-novalisiani nei quali una processione di figure lemuriche, affidate ai décadrage di orchestratissimo e calibrato impeto attoriale (firmamento di stelle di prima grandezza, da Faye Dunaway a Lou Castel, da Franco Nero a Philippe Leroy, da Albertazzi a Foà), tormentano in un oscuro rondò felliniano la notte generatrice dell’artista e dei suoi doppi nella skenè mentale dell’atto creativo, o nell’impossibilità dello stesso nel suo venire all’espressione con sublime furibonda mestizia sonora siglata Luis Enrìquez Bacalov. Il cinema transita sempre altrove quando si ha la pretesa di svelarne spudoratamente le forme.