TRAMA
L’inquieta Eugenia ritorna nella tenuta di famiglia in seguito all’ictus che ha colpito il padre. Qui ritrova la sorella Mia con cui ha un rapporto intenso e passionale. Insieme si troveranno ad affrontare un percorso irto di non detti che le porterà a rivangare un passato scomodo.
RECENSIONI
Pablo Trapero continua a interrogarsi sulla storia del suo paese attraverso un racconto di finzione che, come nel più verace Il Clan, identifica nella famiglia e nella tutela del suo inattaccabile status l’origine di tutti i mali, pubblici e privati. "La Quietud" (nomen omen) è una sorta di ranch alle porte di Buenos Aires in cui la serenità di una famiglia benestante è turbata dall’ictus che colpisce il capofamiglia e causa il rientro di una delle due figlie, da tempo trasferitasi a Parigi. L’altra non ha mai abbandonato Buenos Aires (perfette, per aderenza fisica ai personaggi, le due protagoniste Martina Gusman e Berenice Bejo). In realtà la quiete familiare è sempre stata solo apparenza e i riti borghesi del quieto vivere hanno da sempre coperto amori tutt’altro che sopiti, odi sotterranei, rancori atavici e segreti inconfessabili. Il regista argentino parte da una dimensione intima per poi allargare progressivamente lo sguardo fino ad arrivare ad abbracciare la Storia dolorosa del suo paese.
Per dare corpo alla sua visione rimescola continuamente le carte passando dalla telenovela al dramma storico e intrecciando la commedia con la tragedia. Se l’intento è apprezzabile, perché in linea con il tentativo di mettere in scena la vita, con i suoi alti e bassi, le risate e le lacrime, le conquiste e le rinunce, sul grande schermo i differenti registri non si combinano sempre con fluidità. L’idea di porre al centro del racconto chi è frutto incolpevole di azioni orribili è forte e coraggiosa, perché mostra la relatività del male e le sue molte sfaccettature evitando il senso unico di tante opere più dirette. Trapero la prende quindi da lontano, sposta l’attenzione verso il feuilleton e intanto dissemina piccoli indizi che preparano al discorso più grande a cui vuole arrivare. Le geometrie azzardate a cui sottopone i personaggi, però, finiscono per assumere un peso eccessivo nell’economia del racconto e lo sbilanciano verso le baruffe sentimentali. Succede quindi che la resa dei conti arriva un po’ stridente e lascia una sensazione di zavorra narrativa che trova il suo apice nel finalissimo posticcio e ulteriormente fuori fuoco.
